(Dall'appendice del IV volume dell'Epistolario) IL PRIMO GIORNO DELL'ANNO «Incominciamo oggi, o fratelli, a fare il bene, ché nulla fin qui abbiamo fatto». Queste parole, che il serafico padre S. Francesco nella sua umiltà applicava a se stesso, rendiamole nostre all'inizio di questo nuovo anno. Veramente nulla abbiamo fatto fino ad oggi o, se non altro, ben poco; gli anni si sono susseguiti nel sorgere e nel tramontare, senza che noi ci domandassimo come li avevamo impiegati; se niente vi era da riparare, da aggiungere, da togliere nella nostra condotta. Abbiamo vissuto all'impensata come se un giorno l'eterno giudice non dovesse chiamarci a sé e chiederci conto del nostro operato, del come abbiamo speso il nostro tempo. Eppure di ogni minuto dovremo rendere strettissimo conto, di ogni movimento della grazia, di ogni santa ispirazione, di ogni occasione che ci si presentava di fare il bene. La più lieve trasgressione della legge santa di Dio sarà presa in considerazione. Poveri noi! Non sarà allora il caso di ripetere spaventati ed atterriti del giusto giudizio di Dio: «O monti, rovesciatevi; o terre, apritevi ed inghiottitemi, perché io tremo alla presenza dell'Altissimo». E se poi Dio dovesse pronunziare questa condanna: «Va', servo infedele, al fuoco eterno», sarà finita per sempre per noi, o meglio comincerà per noi un tempo senza fine di atrocissime pene e d'incomprensibili spasimi. Allora vorremmo richiamarci indietro un minuto solo del passato per riparare, per espiare, staremmo contenti secoli e secoli in quel carcere orrendo purché alla fine ci fosse concesso di ritornare sulla terra a far migliore uso del tempo. Eppure, una volta suonata la nostra ultima ora, cessati i battiti del nostro cuore, tutto sarà finito per noi, ed il tempo di meritare e quello pure di demeritare. Tali e quali la morte ci troverà, ci presenteremo a Cristo giudice. I nostri gridi di supplica, le nostre lacrime, i nostri sospiri di pentimento, che ancora sulla terra ci avrebbero guadagnato il cuore di Dio, avrebbero potuto di noi fare con l'aiuto dei sacramenti, da peccatori dei santi, oggi più a nulla valgono, il tempo della misericordia è trascorso, ora incomincia il tempo della giustizia. Una parola sola, o meglio due sole, compendieranno tutto il nostro eterno domani: «Mai, mai! Sempre, sempre!...». Mai, mai più potrai godere della dolce visione di Dio; mai più avrai a tuoi amici la Vergine santissima e tutti i santi; mai più al tuo fianco quell'angelo tutelare, ai cui costanti ed amorosi richiami in vita fosti sordo e ribelle, mai più ti congiungerai a quelle persone care che amasti sulla terra e di cui non avesti la forza di imitare la vita di santità; mai più sarà data grazia a te di vedere Gesù sfolgorante di gloria ed a te venire incontro, mostrandoti le luminose ferite delle sue sacre membra e del suo adorato costato, da cui scaturì tutto il suo divin sangue per redimerti. Ma tu lo calpestasti, quando tutto era in tuo possesso e tu potevi usufruirne per te e per tanti peccatori come te. Ora una sola stilla tu chiedi ed invochi, ma né oggi né mai ti sarà accordata. Sempre tu sarai in compagnia dei dannati, il tuo occhio sarà terrorizzato dai più terrificanti spettacoli, le tue orecchie dalle più inconcepibili ed orrende bestemmie, tutti i tuoi sensi martoriati in senso indefinito e la tua anima, che non può vedere e godere Dio, infinito suo bene, nella disperazione e nel dolore maledirà se stessa e Lui; e ciò sempre, sempre!... O Dio dell'anima mia, qual triste sorte mi aspetta, se io non mi decido a mutar vita, a tesoreggiare il tempo che la vostra bontà mi concede! Chi ha tempo, non aspetti tempo; non rimandiamo al domani, ciò che oggi possiamo fare. Del bene di poi son riboccanti le fosse... Eppoi chi dice a noi che domani vivremo? Ascoltiamo la voce della nostra coscienza, la voce del real profeta: «Oggi se udirete la voce del Signore, non vogliate otturare il vostro orecchio». Sorgiamo e tesoreggiamo, ché il solo istante che fugge è in nostro dominio. Non frapponiamo tempo fra istante ed istante. Noi per divina grazia siamo all'alba di un nuovo anno. Quest'anno, di cui solo Dio sa se vedremo la fine, deve essere tutto impiegato a riparare per il passato, a proporre per l'avvenire. E a pari passo coi buoni propositi vadano le sante operazioni. Oh! sì, facciamo questo, che, dopo aver procurato a noi stessi l'eterna beatitudine, rallegreremo il cuore dolcissimo di Gesù e saremo di sprone al bene ai nostri fratelli, i quali, stimolati dal nostro operare, essi pure cammineranno per la via della giustizia e dell'amore. Diciamo a noi stessi con la piena convinzione di dire la verità: anima mia, incomincia oggi ad operare il bene, ché nulla hai fatto fin qui. Facciamo sì che ci moviamo alla presenza di Dio. Dio mi vede, ripetiamo spesso a noi stessi, e nell'atto che egli mi vede mi giudica pure. Facciamo sì che egli non veda in noi sempre se non il solo bene. Premuniamoci contro il mondo e le passioni che, quali belve feroci, attenteranno al nostro eterno bene, e nella nostra debolezza non diffidiamo del divino aiuto. Quel Dio, che ci siamo proposti di vedere e tener scolpito dinanzi alla nostra mente, è sempre pronto a venirci in aiuto. Egli, sempre fedele nelle sue promesse, vedendoci combattere da forti, manderà i suoi angioli a sostenerci nella prova. La palma della gloria non è serbata se non a chi combatte da prode fino alla fine. Incominci dunque quest'anno il nostro santo combattimento. Dio ci assisterà e ci coronerà di un eterno trionfo. IL NATALE DI GESÙ Nel cuore della notte, nella stagione più rigida, nella più gelida grotta, più abitazione di armenti che di umana creatura, veniva alla luce nella pienezza dei tempi il promesso Messia — Gesù — il Salvatore degli uomini. Non strepito attorno a lui; un bue ed un asino riscaldano il neonato povero Bambino; un'umile donna, un povero uomo stanco adoranti presso di lui. Non si odono che vagiti e pianto del Dio pargoletto. E con questo pianto e con questi vagiti egli offre alla divina giustizia il primo riscatto della nostra riconciliazione. Da ben quaranta secoli egli è atteso; con sospiri gli antichi Padri ne avevano invocato la venuta; i sacri scrittori chiaramente avevano profetato ed il luogo e l'epoca della sua nascita, eppure tutto è silenzio e sembra che nessuno sia a conoscenza di questo grande avvenimento. Solo un po' più tardi egli è visitato da pastori intenti a vigilare il gregge nei prati. Sono avvertiti da spiriti celesti dello strepitoso avvenimento, invitati a recarsi alla sua grotta. Quali e quanti non sono, o cristiani, gli insegnamenti che si partono dalla grotta di Betlemme! Oh come deve sentirsi acceso il cuore di amore per colui che tutto tenerezza si è fatto per noi! Oh come dovremmo ardere del desiderio di condurre il mondo tutto a quest'umile grotta, asilo del re dei re, più grande di ogni reggia umana, perché trono e dimora di Dio! Chiediamo a questo divin Bambino di rivestirci di umiltà, perché solo con questa virtù possiamo gustare questo mistero ripieno di divine tenerezze. Scintillano i palazzi della superba Israele, eppure non in essi venne al mondo la Luce! Baldanzosi di umana grandezza, nuotanti nell'oro e negli agi sono i magnati della nazione giudaica, ricolmi di vana scienza e superbia i sacerdoti del santuario, contro il vero senso delle divine rivelazioni attendono un Salvatore troppo impicciolito, veniente al mondo con umana grandezza e potenza. Ma Dio, che è sempre intento a confondere la sapienza di questo mondo, disperse i loro disegni e, contro l'aspettativa di chi è privo della sapienza divina, discende fra noi nella più grande abiezione, rinunzia fino a nascere nell'umile casetta di Giuseppe, rinunzia finanche ad un modesto alloggio fra parenti e conoscenti nella città di Giuda e, quasi rifiuto degli uomini, chiede rifugio e soccorso a vili animali, scegliendo la loro dimora per luogo di sua nascita, il loro fiato per riscaldare il suo tenero corpicciuolo. Permette che il primo ossequio gli sia tributato da poveri e rozzi pastori, che egli stesso, per mezzo dei suoi angeli, informa del grande mistero. O sapienza o potenza di Dio, ci sentiamo di dover esclamare — estasiati col tuo Apostolo — quanto sono incomprensibili i tuoi giudizi e non investigabili le tue vie! Povertà, umiltà, abiezione, disprezzo, circondano il Verbo fatto carne; ma noi, dall'oscurità in cui questo Verbo fatto carne è avvolto, comprendiamo una cosa, udiamo una voce, intravediamo una sublime verità: tutto questo l'hai fatto per amore, e non c'inviti che all'amore, non ci parli che di amore, non ci dai che prove di amore. Il celeste Bambino soffre e vagisce nel presepe per rendere a noi amabile, meritoria e ricercata la sofferenza: egli manca di tutto, perché noi apprendiamo da lui la rinunzia dei beni e degli agi terreni; egli si compiace di umili e poveri adoratori per invogliarci ad amare la povertà e preferire la compagnia dei piccoli e dei semplici a quella dei grandi del mondo. Questo celeste Bambino tutto mansuetudine e dolcezza vuole infondere nei nostri cuori col suo esempio queste sublimi virtù, affinché nel mondo dilaniato e sconvolto sorga un'era di pace e di amore. Egli fin dalla nascita ci addita la nostra missione, che è quella di disprezzare ciò che il mondo ama e cerca. Oh! prostriamoci innanzi al presepe e con il grande S. Girolamo, il santo infiammato di amore a Gesù bambino, offriamogli tutto il nostro cuore senza riserva, e promettiamogli di seguire gli insegnamenti che giungono a noi dalla grotta di Betlemme, che ci predicano essere tutto quaggiù vanità delle vanità, non altro che vanità. BREVE DISCORSO PER IL GIORNO DI PASQUA Dopo la giusta, doverosa e santa mestizia degli scorsi giorni sacri alla passione di Gesù Cristo, spunta la letizia di questa Pasqua, anniversario della resurrezione di Cristo, ed eccita tutti noi, suoi seguaci, a sorgere spiritualmente alla grazia. Resurrexit! Ecco il grido di giubilo che la Chiesa innalza in questo giorno da ogni angolo della terra e tutti i popoli cristiani, affratellandosi insieme, solennizzano in modo speciale questo santo giorno, rispondendo all'invito materno della Chiesa con le parole dell'apostolo S. Paolo. «Ita et nos in novitate vitae ambulemus»: risorgiamo noi pure in vita nuova, morigerata e santa. E noi, signori miei, che abbiamo avuto questa grazia di essere una porzione di questo immenso stuolo di popoli, festeggiamo solennemente questo giorno. Ed io, vostro fratello in Gesù Cristo, prego tutti in questo giorno a porgere orecchio alle esortazioni ed auguri che sto per farvi. La nostra Chiesa festeggia dunque, quest'oggi, la risurrezione di Gesù Cristo, suo sposo e nostro Redentore, e lo festeggia non coi sentimenti del mondo, ma con quelli degni di una sposa santissima, la quale vuole rimunerati i sacrifici che il suo sposo divino ha fatto per tutta l'umanità. Perché Gesù Cristo si sacrificò alla morte? Per espiare le nostre colpe, mi risponde la fede. Perché risuscitò con tanto strepito di prodigi? Per testimoniarci il conseguimento della nostra redenzione. Nella morte di lui ci rammenta che eravamo morti pel peccato, nella sua risurrezione abbiamo invece un perfettissimo modello del nostro risorgimento alla grazia. Siccome Gesù Cristo è risorto immortale alla vita di gloria, così, a dire con lo stesso S. Paolo, dobbiamo noi pure risorgere immortali alla vita di grazia, con fermo proposito di non voler mai più, per l'avvenire, soggiacere alla morte spirituale dell'anima. E veramente la vita di grazia, a cui siamo risorti, è di sua natura immortale, siccome immortale di sua natura è la vita di gloria, a cui Cristo è risorto: con questo solo divario che, se Cristo non può più morire alla sua vita di gloria, ciò è frutto di beata necessità; ma se noi non moriamo più alla vita di grazia, dev'essere merito d'elezione e del nostro studio costante. Volevano le regole di una rigorosa giustizia che, risorto, Cristo salisse subito glorioso alla destra del suo celeste Padre nel possesso dell'eterno gaudio, come proposto si era nel sostenere l'acerbissima morte di croce. E, nondimeno, noi sappiamo benissimo che, per lo spazio di quaranta giorni, volle comparire risorto. Surrexit Dominus vere, et apparuit. E per che mai? Per stabilire, come dice S. Leone, con sì eccelso mistero le massime tutte della novella sua fede. Riputò, quindi, non aver fatto abbastanza per la nostra edificazione se, dopo esser risorto, non fosse comparso. Dico questo per la nostra edificazione, perché non basta a noi il risorgere ad imitazione di Cristo, se, a sua imitazione, non compariamo risorti, cambiati, e rinnovati nello spirito. Questo pertanto, fratelli miei, è il sincero augurio che in questo giorno v'indirizzo. Iddio benedica e confermi i nostri buoni propositi, affinché il giorno della presente solennità perduri nella gioia delle vostre buone coscienze, nelle soddisfazioni dei vostri doveri, nella santificazione di voi stessi. Questo studio, questo sforzo di perseverare nel bene, per quanto ci possa riuscire di sacrifizio, non ci parrà troppo lungo. Passeranno anche per noi questi quaranta giorni che mancano alla nostra salita al cielo. Non saranno giorni poi, ma saranno mesi, saranno forse anni: io vi auguro, o fratelli, una vita lunga e prosperosa, piena di benedizioni celesti e terrene. Ma, finalmente, questa vita finirà! Ed allora felici noi, se ci saremo assicurati la gioia di un felice passaggio all'eternità. Allora la nostra risurrezione sarà completa. Non più pericoli di perdere la grazia di Dio, non più patimenti, non più morte, ma sempiterna vita con Gesù Cristo nel cielo. Piaccia al Signore di ratificare, con le sue benedizioni, questi miei voti; e sarò felice di avervi dimostrato come e quanto la vostra felicità mi stia a cuore, quanto per essa mi adoperi, quanto costantemente per essa io preghi. |