Sant'Alfonso Maria de' Liguori PARTE I LA MESSA STRAPAZZATA Non mai alcun sacerdote dirà la messa colla divozione dovuta, se non ha la stima che merita un tanto sacrificio. È certo che non può un uomo fare un'azione più sublime e più santa, che celebrare una messa: Nullum aliud opus, dice il concilio di Trento, adeo sanctum a Christi fidelibus tractari posse, quam hoc tremendum mysterium. Dio stesso non può fare che vi sia nel mondo un'azione più grande, che del celebrarsi una messa. Tutti i sacrifici antichi, con cui fu tanto onorato Iddio, non furono che un'ombra e figura del nostro sacrificio dell'altare. Tutti gli onori che han dati giammai e daranno a Dio gli angeli co' loro ossequi, e gli uomini colle loro opere, penitenze e martirii, non han potuto né potranno giungere a dar tanta gloria al Signore, quanta gliene dà una sola messa; mentre tutti gli onori delle creature sono onori finiti; ma l'onore che riceve Iddio nel sacrificio dell'altare, venendogli ivi offerta una vittima d'infinito valore, è un onore infinito. La messa dunque è un'azione che reca a Dio il maggior onore che può darsegli: è l'opera che più abbatte le forze dell'inferno; che apporta maggior suffragio all'anime del purgatorio; che maggiormente placa l'ira divina contro i peccatori, e che apporta maggior bene agli uomini in questa terra. Se sta promesso che quanto chiederemo a Dio in nome di Gesù, tutto otterremo: Si quid petieritis Patrem in nomine meo, dabit vobis: quanto più dobbiamo ciò sperare, offerendogli Gesù medesimo? Questo nostro amoroso Redentore continuamente in cielo sta intercedendo per noi: Qui etiam interpellat pro nobis. Ma ciò specialmente lo fa in tempo della messa, nella quale egli, anche a questo fine di ottenerci le grazie, presenta se stesso al Padre per mano del sacerdote. Se noi sapessimo che tutti i Santi colla divina Madre pregassero per noi, qual confidenza non concepiremmo per li nostri vantaggi? ma è certo che una sola preghiera di Gesù Cristo può infinitamente più che tutte le preghiere de' santi. Poveri noi peccatori, se non vi fosse questo sacrificio che placa il Signore! Huius quippe oblatione placatus Dominus, gratiam et donum poenitentiae concedens, crimina et peccata etiam ingentia dimittit, dice il Tridentino. In somma, siccome la passione di Gesù Cristo bastò a salvare tutto il mondo, così basta a salvarlo una sola messa; che però il sacerdote nell'oblazione del calice dice: Offerimus tibi, Domine, calicem salutaris...pro nostra et totius mundi salute. La messa è il più buono e più bello della chiesa, secondo predisse il profeta: Quid enim bonum eius est, et quid pulchrum eius, nisi frumentum electorum et vinum germinans virgines? Poiché nella messa il Verbo incarnato si sacrifica all'eterno Padre e si dona a noi nel sagramento dell'eucaristia, il quale è il fine e lo scopo di quasi tutti gli altri sacramenti, come insegna l'angelico: Fere omnia sacramenta in eucharistia consummantur. Onde dice s. Bonaventura, che la messa è l'opera in cui Iddio ci mette avanti gli occhi tutto l'amore che ci ha portato, ed è un certo compendio di tutti i benefici che ci ha fatti: Est memoriale totius dilectionis suae, et quasi compendium quoddam omnium beneficiorum suorum. E perciò il demonio ha procurato sempre di toglier dal mondo la messa per mezzo degli eretici, costituendoli precursori dell'Anticristo, il quale, prima d'ogni altra cosa, procurerà d'abolire, ed in fatti gli riuscirà d'abolire, in pena de' peccati degli uomini, il santo sacrificio dell'altare, giusta quel che predisse Daniele: Robur autem datum est ei contra iuge sacrificium propter peccata. Dice lo stesso s. Bonaventura che Dio in ogni messa non fa minor beneficio al mondo di quello che fece allora che s'incarnò: Non minus videtur facere Deus in hoc quod quotidie dignatur descendere super altare, quam cum naturam humani generis assumpsit. Sicché, come dicono i dottori, se mai non vi fosse stato ancora nel mondo Gesù Cristo, il sacerdote ve lo porrebbe con proferire la forma della consagrazione; secondo la celebre sentenza di s. Agostino, che scrisse: O veneranda sacerdotum dignitas, in quorum manibus velut in utero Virginis Filius Dei incarnatur! Inoltre, non essendo altro il sacrificio dell'altare, che l'applicazione e la rinnovazione del sacrificio della croce, insegna l'angelico, che una messa apporta agli uomini tutti gli stessi beni e salute che apportò il sacrificio della croce: In qualibet missa invenitur omnis fructus, quem Christus operatus est in cruce. Quiquid est effectus dominicae passionis, est effectus huius sacrificii. Lo stesso scrisse il Grisostomo: Tantum valet celebratio missae, quantum valet mors Christi in cruce. E di ciò maggiormente ce ne assicura la s. chiesa, dicendo: Quoties huius hostiae commemoratio recolitur, toties opus nostrae redemptionis exercetur. Giacché il medesimo Salvatore che si offerì per noi sulla croce si sagrifica sull'altare per mezzo de' sacerdoti, come ci dichiara il Tridentino: Una enim eademque est hostia, idem nunc offerens sacerdotis ministerio, qui se ipsum in cruce obtulit, sola ratione offerendi diversa. Ond'è che per lo sagrificio dell'altare s'applica a noi il sagrificio della croce. La passione di Gesù Cristo ci fe' capaci della redenzione; la messa ce ne mette in possesso e fa che godiamo ne' suoi meriti. Posto dunque che la messa è l'opera più santa e divina che possa da noi trattarsi, bene apparisce, dice il concilio di Trento, che dee impiegarsi ogni diligenza, acciocché un tal sagrificio si celebri colla maggior purità interna e divozione esterna che sia possibile: Satis etiam apparet omnem operam in eo ponendam esse, ut quanta maxima fieri potest interiori cordis munditia, atque exteriori devotione ac pietatis specie peragatur. E dice che la maledizione fulminata da Geremia contro coloro che negligentemente esercitano le funzioni ordinate al culto divino (Maledictus homo qui facit opus Dei negligenter), precisamente s'appartiene, a' sacerdoti che con irriverenza celebrano la messa, la quale, fra tutte le azioni che può fare l'uomo per onorare il suo Creatore, è la più grande ed eccelsa, soggiungendo che una tale irriverenza difficilmente può essere scompagnata dall'empietà: Quae ab impietate vix seiuncta esse potest, sono appunto le parole del concilio. Acciocché dunque il sacerdote eviti sì grave irriverenza, ed insieme la divina maledizione, vediam che ha da fare prima di celebrare, che ha da fare nel celebrare, e che dopo aver celebrato. Prima di celebrare gli è necessario l'apparecchio. Nel celebrare dee usare la riverenza dovuta. Dopo aver celebrato, dee fare il ringraziamento. Dell'apparecchio prima di celebrare In primo luogo dee il sacerdote far l'apparecchio. Diceva un servo di Dio, che tutta la vita del sacerdote non dovrebbe esser altro che apparecchio e ringraziamento alla messa. È vero che la sagrosanta eucaristia è istituita a beneficio di tutti i fedeli, ma ella è un dono specialmente fatto ai sacerdoti: Nolite, dice il Signore parlando a' sacerdoti, dare sanctum canibus, neque ponatis margaritas vestras ante porcos. Si notino le parole margaritas vestras; col nome di margarite in greco son chiamate le particole consagrate, or queste margarite son dette cosa propria de' sacerdoti, margaritas vestras. Posto ciò, secondo parla il Grisostomo, ogni sacerdote dovrebbe partirsi dall'altare tutto infiammato d'amor divino, sì che mettesse spavento all'inferno: Tanquam leones igitur ignem spirantes ab illa mensa recedamus, facti diabolo terribiles. Ma ciò poi non si vede avvenire, ma si vede che la maggior parte de' sacerdoti escono dall'altare sempre più tepidi, più impazienti, superbi, golosi, e più attaccati all'interesse, alla stima propria ed ai piaceri terreni: Defectus non in cibo est, sed in sumente, dice il cardinal Bona. Il difetto non nasce dal cibo che prendono in tal mensa, poiché questo cibo una sola volta preso, come dicea s. Maria Maddalena de' Pazzi, basterebbe a renderli santi; ma nasce dal poco apparecchio che fanno in celebrar la messa. L'apparecchio altro è rimoto, altro è prossimo. Il rimoto è la vita pura e virtuosa che dee far il sacerdote per degnamente celebrare. Se Iddio richiedea la purità da' sacerdoti antichi, sol perché doveano portare i vasi sagri: Mundamini, qui fertis vasa Domini: quanto più puro dee essere il sacerdote, che dee portar nelle mani e nel petto il Verbo incarnato: Quanto mundiores esse oportet, qui in manibus et in corpore portant Christum, dice Pietro Blessense. Ma per esser puro e santo il sacerdote, non basta che sia libero solamente da' peccati mortali, bisogna che sia esente anche da' veniali (s'intende deliberati); altrimenti, dice s. Bernardo, che Gesù C. non l'ammetterà ad aver parte seco: Nemo quae videntur modica contemnat; quoniam, sicut audivit Petrus, nisi laverit ea Christus, non habebimus partem cum eo. Bisogna dunque che tutte le azioni, le parole ed i pensieri del sacerdote che vuol dir la messa, sieno così santi, che possano esser disposizioni per ben celebrare. Per l'apparecchio prossimo poi, è necessaria primieramente l'orazione mentale. Che messa divota potrà mai dire quel sacerdote che celebra senza aver fatta prima la meditazione? il p. m. Avila dicea che 'l sacerdote dee premettere alla messa almeno un'ora e mezza d'orazione mentale. Io mi contenterei di mezz'ora, e per alcuni più tepidi anche d'un quarto; ma non posso lasciar di dire che un quarto è troppo poco. Oh Dio! vi sono tanti belli libri di meditazioni per l'apparecchio alla messa; ma chi le fa? E perciò si vedono poi tante messe indevote e sconcertate che si dicono. Dice s. Tomaso che il Redentore ha istituito il ss. sagramento dell'altare, acciocché in noi fosse sempre viva la memoria dell'amore che ci dimostrò nella sua passione, e de' gran beni che ci ottenne col sacrificarsi per noi nella croce; e perciò l'apostolo ci avvertì, sempreché andiamo a prender la comunione, di ricordarci della morte del nostro Signore: Quotiescumque enim manducabitis panem hunc, et calicem bibetis, mortem Domini annunciabitis. Or se tutt'i fedeli debbon ricordarsi nella comunione della passione di Gesù Cristo, quanto più dee farlo il sacerdote, allorché dice la messa, in cui non solo si ciba delle sue carni sagrosante, ma rappresenta e rinnova sull'altare (benché in diverso modo) lo stesso sagrificio della croce? Inoltre, ancorché il sacerdote abbia fatta la sua meditazione, prima non però di celebrare sempre conviene che almeno si raccolga per un poco di tempo, e consideri la grande azione che va a fare. Così ordinò a tutti i sacerdoti il concilio di Milano a' tempi di s. Carlo: Antequam celebrent, se colligant, et orantes mentem in tanti mysterii cogitationem defigant. In entrare il sacerdote nella sagrestia per celebrare, dee licenziar tutt'i pensieri di mondo e dire come dicea s. Bernardo: affari e sollecitudini terrene, aspettatemi qui sino a tanto che, dopo aver celebrata la messa che richiede tutta la mia attenzione, a voi ritorni. S. Francesco di Sales scrisse una volta alla b. Giovanna di Sciantal: Quand'io mi rivolgo all'altare per cominciar la messa, perdo di vista tutte le cose di terra. Consideri per tanto, che va a chiamare dal cielo in terra il Verbo incarnato, per familiarmente trattarvi sull'altare, per sacrificarlo di nuovo all'eterno Padre, e per cibarsi finalmente delle sue carni divine. Così cercava d'infervorarsi il ven. p. Giovanni Avila, dicendo: Ora io vo a consagrare il Figlio di Dio, vo a tenerlo nelle mie mani, a favellare e trattar seco, ed a riceverlo nel mio petto. Di più dee considerare ch'egli va sull'altare a far l'intercessore per tutti i peccatori: Sacerdos, dum celebrat (dice s. Lorenzo Giustiniani), mediatoris gerit officium, propterea delinquentium omnium debet esse precator. Sicché il sacerdote, stando all'altare, come scrisse s. Gio. Grisostomo, sta in mezzo a Dio ed agli uomini, rappresenta le preghiere degli uomini, e loro ottiene le grazie da Dio: Medius sit sacerdos inter Deum et naturam humanam, illinc beneficia ad nos deferens. Nell'antica legge solamente una volta l'anno era permesso al sacerdote d'entrare nel sancta sanctorum a pregare per il popolo; ma oggi a tutt'i sacerdoti ogni giorno è concesso il potere offerire l'agnello divino all'eterno Padre, per ottenere a sé ed a tutta la chiesa le divine grazie. Quindi dice il concilio di Basilea, che se un vassallo ha da andare a chiedere qualche grazia al suo principe, non lascia egli di comporsi come meglio può nelle vesti decenti, nel gesto umile, nella dicitura modesta e nell'attenzione dovuta; quanto più dee ciò fare il sacerdote, quando va a pregare per sé e per gli altri la maestà di Dio? Si quis principem saeculi rogaturus, habitu honesto, gestu decenti, prolatione non praecipiti, attenta quoque mente se ipsum studet componere; quanto diligentius in sacro loco rogaturus Deum haec facere curabit? Della riverenza nel celebrare In secondo luogo nel celebrare dee il sacerdote usar la riverenza dovuta ad un tanto sagrificio. Questo già è l'intento o almeno il punto principale di questo libretto. Vediamo dunque che cosa importi questa riverenza. Importa per prima, che s'impieghi la dovuta attenzione alle parole della messa: e per secondo importa che si osservino esattamente le cerimonie prescritte dalle rubriche. In quanto all'attenzione alle parole, pecca il sacerdote che nel dir la messa volontariamente si distrae; e come dicono i dottori, chi si distraesse nella consagrazione e sunzione, o pure nel canone in notabil parte, peccherebbe mortalmente; così sentono Roncaglia, Concina e Tamburino, il quale benché sia benigno, anzi troppo benigno nelle sue opinioni, nulladimeno parlando di tal punto dice: Si sacerdos per notabile tempus voluntarie distractus, eas missae partes quae canonem continent recitet, peccabit mortaliter. Videtur autem mihi gravis irreverentia, qua quis dum profitetur Deum summe venerari, cum illo irreverenter per voluntariam distractionem se gerat. E dello stesso sentimento son io, checché si dicano alcuni altri autori: poiché, lasciando da parte la questione, se l'attenzione interna sia d'essenza dell'orazione, dico che il sagrificio dell'altare, oltre la ragione d'orazione, ha la ragione d'un eccellentissimo culto di religione, a cui sembra recar grave irriverenza chi, mentre attualmente professa di venerar religiosamente Iddio, volontariamente si distrae in pensieri alieni. Quindi avverte la rubrica: Sacerdos maxime curare debet, ut distincte et apposite proferat, non admodum festinanter, ut advertere possit quae legit etc. In quanto poi all'adempimento delle cerimonie prescritte dalle rubriche nella celebrazione della messa, s. Pio V, nella bolla registrata nel messale comanda, districte et in virtute s. obedientiae, che la messa si celebri secondo le rubriche del messale: Iuxta ritum (son le sue parole), modum et normam in missali praescriptam. Onde ben dice il p. Suarez che l'omissione di qualunque cerimonia ordinata dalle rubriche, come d'ogni benedizione, genuflessione, inclinazione e simili, non può scusarsi da colpa veniale. E ciò lo dichiara poi espressamente Benedetto XIII nel concilio Romano, dicendo che nella celebrazione della messa, ritus, in minimis etiam, sine peccato negligi vel mutari haud possunt. Dicea s. Teresa: Io darei la vita per una cerimonia della chiesa; e 'l sacerdote poi le disprezza? Lo stesso dice La Croix con Pasqualigo, se, le dette cerimonie si fanno troppo velocemente; o pure se si fanno sconciamente, come ben dice il p. Concina parlando di que' celebranti che non genuflettono sino a terra, o vero che nel baciar l'altare fan solamente segno di baciarlo, o che malamente formano le benedizioni, secondo prescrivono le rubriche; poiché scrive il Gavanto con Ledesma, esser lo stesso tralasciar le cerimonie prescritte, che malamente farle, giusta l'assioma de' giuristi: Paria sunt non facere et male facere. Di più dicono poi comunemente i dottori Wigandt, Roncaglia, Concina e La Croix che se taluno omette le cerimonie della messa in notabil parte, ancorché non sieno delle più gravi, non è scusato da colpa grave; mentr'essendo tali omissioni replicate nello stesso sagrificio, ben si uniscono a far materia grave atteso che unite elleno in notabil quantità, formano già una grave irriverenza al sagrificio. Sappiamo che anche nell'antica legge minacciò il Signore più maledizioni contro de' sacerdoti che trascuravano le cerimonie di quei sacrifici ch'eran semplici figure del nostro: Quod si audire nolueris vocem Domini, ut custodias caeremonias...venient super te omnes maledictiones istae: Maledictus eris in civitate, maledictus in agro... maledictus eris ingrediens etc. Posto ciò, osservando il modo come dicono la messa la maggior parte de' sacerdoti con tanta fretta, e con tanto strapazzo di cerimonie, bisognerebbe piangere e piangere a lagrime di sangue. A costoro bene starebbe detto quel che rimproverava Clemente Alessandrino a' sacerdoti gentili, cioè che da essi il cielo faceasi diventare scena, e Dio diventar il soggetto della commedia: Oh impietatem! scenam coelum fecistis, et Deus factus est actus. Ma che dico commedia? Oh che attenzione vi metterebbero questi tali, se avessero a recitare una parte in commedia! E per la messa poi quale attenzione vi pongono? parole mutilate, genuflessioni a mezz'aria che sembrano più presto atti di disprezzo che di riverenza: benedizioni di croci che non si sa che cosa vogliano significare: camminano per l'altare, e si voltano in modo che muovono a ridere: maneggiano poi l'ostia sacrosanta e 'l calice consacrato, come se avessero in mano un pezzo di pane ed una tazza di vino: complicano le parole della messa disordinatamente colle cerimonie, anticipando l'une all'altre prima del tempo destinato dalle rubriche: in somma tutta la loro messa non è altro, dal principio sino alla fine, che un affastellamento di disordini e d'irriverenze. E tutto ciò perché avviene? avviene parte per l'ignoranza delle rubriche che non si sanno né si cercano di sapere: e parte per l'ansia di finir la messa quanto più presto si può. Sembra che costoro dicano la messa, come stesse per cadere la chiesa o fossero per venire i turchi e non si avesse tempo di fuggire. Taluno sarà stato due ore prima a trattar faccende di mondo, o a ciarlare inutilmente in una bottega o nella sagrestia, e poi si dà tutta la fretta in dir la messa, non badando ad altro che a terminarla presto. Ci bisognerebbe sempre uno che lor dicesse quel che disse un giorno il p. maestro Avila, accostandosi all'altare, ad un sacerdote che celebrava in sì fatta maniera: Per carità, trattalo meglio, perché è figlio d'un buon padre. Ai sacerdoti antichi ordinò Iddio che in avvicinarsi al santuario tremassero per la riverenza: Pavete ad sanctuarium meum. E poi un sacerdote della nuova legge, stando sull'altare alla presenza di Gesù Cristo, mentre lo prende in mano, mentre l'offerisce e se ne ciba, ardisce usar tanta irriverenza? Il sacerdote nell'altare, come dice s. Cipriano, e com'è certo, rappresenta la stessa persona di Gesù Cristo: Sacerdos vice Christi vere fungitur. Mentre ivi già in persona di Gesù Cristo egli dice: Hoc est corpus meum. Hic est calix sanguinis mei. Ma oh Dio! vedendo tanti sacerdoti d'oggidì celebrar con tanta irriverenza che mai dee dirsi? che rappresentino Gesù Cristo, o pure che sembrino tanti saltimbanchi che si vanno procacciando il vivere colle loro arti da giuoco, secondo quel che scrisse il sinodo spalatense: Plerique celebrantes conantur, non ut missam celebrent, sed ut absolvant; non ut victus sustentationem habeant; ita ut missae celebratio, non tamquam religionis mysteria, sed ut lucrandi ars quaedam exerceatur. E quel ch'è più ammirabile e (per meglio dire) deplorabile, è il vedere anche religiosi, e taluni anche di religioni riformate ed osservanti, dir la messa con tanta fretta e con cerimonie così sconce, che darebbero scandalo anche agl'idolatri, e peggio che se fossero sacerdoti secolari i più rilasciati che mai. Quindi s'avverta che i sacerdoti i quali celebrano così indegnamente, non solo peccano per l'irriverenza grave che fanno al sacrificio, ma anche per il grave scandalo che danno al popolo che assiste alla messa. Siccome una messa divota concilia gran divozione e venerazione verso di lei (di s. Pietro di Alcantara si narra che facea più frutto la messa ch'egli divotamente celebrava, che tutti i sermoni de' predicatori di quella provincia dove stava), così all'incontro una messa indivota fa perdere il concetto e la venerazione che si dee ad un tanto sacrificio. Dice il concilio di Trento che non ad altro fine le cerimonie della messa sono state ordinate dalla chiesa, che insinuare a' fedeli la venerazione dovuta al sagrificio dell'altare ed agli altissimi misteri che in quello si contengono: Ecclesia (parla il concilio) caeremonias adhibuit ut maiestas tanti sacrificii commendaretur, et mentes fidelium per haec visibilia religionis signa ad rerum altissimarum, quae in hoc sacrificio latent, contemplationem excitarentur. Ma queste cerimonie, quando poi si fanno sconce o con fretta, non inducono già venerazione, ma più presto fan perdere a' secolari la venerazione verso un mistero sì santo. Dice Pietro Blessense, che per le messe dette con poca riverenza si dà motivo alla gente di far poco conto del ss. sacramento: Ex inordinatis et indisciplinatis sacerdotibus hodie datur ostentui nostrae redemptionis venerabile sacramentum. E perciò il concilio turonese nell'anno 1583 ordinò che i sacerdoti fossero bene istruiti nelle cerimonie della messa (notate il fine): Ne populum sibi commissum a devotione potius revocent, quam ad sacrorum mysteriorum venerationem invitent. Come vogliono poi i sacerdoti con tali messe così indivote ottener perdono de' loro peccati e grazie da Dio, se nello stesso tempo che gliele offeriscono, l'offendono, e dal canto loro gli recano più disonore che onore? Cum omne crimen (disse Giulio papa) sacrificiis deleatur, quid pro delictorum expiatione Domino dabitur, quando in ipsa sacrificii oblatione erratur? Offenderebbe Dio quel sacerdote, che non credesse al sagramento dell'eucaristia, ma più l'offende chi lo crede, e non gli usa il dovuto rispetto, e nello stesso tempo fa che glielo perdano ancora gli altri, che lo vedon celebrare con tanto poca riverenza. I giudei rispettarono Gesù Cristo nel principio della sua predicazione, ma quando poi lo videro disprezzato da' sacerdoti, ne perderono affatto il buon concetto, e si posero in fine unitamente cogli stessi sacerdoti a gridare, tolle, tolle, crucifige eum. E così oggidì i secolari, vedendo trattarsi la messa dai sacerdoti con tanto strapazzo e negligenza, ne perdono quasi il concetto e la venerazione. Come dissi di sopra, una messa detta con divozione apporta divozione ad ognuno che la sente; all'incontro una messa strapazzata fa perdere la divozione agli assistenti, e quasi anche la fede. Mi narrò un certo religioso di molto credito un fatto orrendo circa questo punto; e questo fatto lo ritrovo anche accennato dal p. Serafino Maria Loddi domenicano nel suo libretto, Motivi per celebrare la messa senza fretta ecc. In Roma vi fu un certo eretico che stava risoluto di abbiurare, siccome avea promesso di fare al sommo pontefice (che fu Clemente XI); ma avendo poi veduta celebrare in una chiesa una messa indivota, se ne scandalizzò in modo, che se ne andò al papa e gli disse ch'egli non volea più abbiurare, essendosi persuaso che né i sacerdoti, né lo stesso pontefice aveano vera fede per la chiesa cattolica: ma gli disse il papa che l'indivozione d'un sacerdote, o di più sacerdoti negligenti, non potea pregiudicare alle verità di fede che la chiesa insegnava. Non però rispose l'eretico: ma se io fossi papa, e sapessi esservi un sacerdote che dice la messa con tanta irriverenza, lo farei bruciar vivo; vedendo io poi che vi sono sacerdoti che celebrano così indegnamente in Roma ed in faccia al papa, e non sono castigati, mi persuado che neppure il papa ci crede: e così dicendo si licenziò, ed ostinatamente non volle più abbiurare. Aggiungo a tal proposito che un certo secolare (appunto stamattina mentre sto scrivendo la presente operetta), vedendo una messa di questa sorta, non ha potuto trattenersi di dire ad un nostro compagno della congregazione che me l'ha riferito: Veramente questi sacerdoti con queste messe che dicono ci fan perdere la fede. Odasi come piange su questo scandalo così lacrimabile delle messe strapazzate da' sacerdoti il piissimo cardinal Bellarmino, riferito da Benedetto XIV: Aliud est etiam lacrymis uberrimis dignum, quod ob nonnullorum sacerdotum incuriam aut impietatem, sacrosancta mysteria tam indigne tractentur, ut qui illa tractant videantur non credere maiestatem Domini esse praesentem. Sic enim aliqui sine spiritu, sine affectu, sine timore, festinatione incredibili sacrum perficiunt, quasi fide Christum non viderent, aut ab eo se videri non crederent. Poveri sacerdoti! Il ven. p. m. Avila, essendo morto un sacerdote dopo d'aver celebrata la sola prima messa, disse: Oh che gran conto questo sacerdote avrà dovuto rendere a Dio per questa prima messa che ha detta! Or considerate che dovea dire il p. Avila de' sacerdoti che per trenta o quarant'anni avranno detta una messa scandalosa, nel modo che abbiam divisato di sopra? Si narra negli annali de' pp. cappuccini a proposito della messa strapazzata il seguente caso terribile. Vi era un certo rettore d'una chiesa che celebrava la messa con molta fretta ed irriverenza; onde un giorno il p. fra Matteo da Basso, primo generale de' cappuccini, subito che quel sacerdote entrò in sagristia dopo la messa lo corresse, dicendogli che la sua messa non edificava la chiesa, ma più presto la distruggeva; e perciò lo pregava o a celebrarla colla gravità dovuta o almeno ad astenersi di dirla, per non recare più al popolo lo scandalo che dava. Il rettore talmente si offese di quella riprensione, ch'essendosi presto spogliato delle sagre vesti, corse dietro al religioso per farne risentimento, ma non ritrovandolo, si ritirò in sua casa, dove indi a poco il misero fu assalito da certi suoi nemici, e restò sì malamente ferito, che nello spazio d'un'ora infelicemente spirò; ed allora uscì una sì fiera tempesta di venti che svelsero dalle radici anche le querce e sollevarono gli armenti in aria. Quindi essendosi scongiurato un ossesso, s'intese per bocca di lui, che tutti i demoni di quel paese eransi uniti ad impedire che quel sacerdote si convertisse prima di morire; e che avendo ottenuto l'intento, in segno del loro trionfo aveano eccitata nell'aria quella tempesta. Io non so poi con qual coscienza i parrochi e i sagrestani ammettono a celebrare nelle loro chiese tali sacerdoti che dicono la messa con tanta irriverenza. Il p. Pasqualigo non sa scusarli da colpa grave, dicendo: Praelatos etiam regulares et rectores ecclesiarum peccare mortaliter, si permittant subditos celebrare cum nimia festinatione, quia ratione muneris tenentur curare ut celebratio congruo modo se habeat. E non ha dubbio che i vescovi son tenuti con obbligo stretto a proibir la celebrazione (senza riguardo) a tali sacerdoti, siccome ordinò il Tridentino, parlando delle messe: Decernit s. synodus ut ordinarii locorum ea omnia prohibere sedulo curent ac teneantur, quae irreverentia (quae ab impietate vix seiuncta esse potest) induxit. Si notino le parole: prohibere curent ac teneantur, ond'è che i prelati sono obbligati ad invigilare e ancora ad informarsi diligentemente del come si celebri la messa nelle loro diocesi; e debbon sospendere dalla celebrazione quei sacerdoti che la dicono senza la dovuta riverenza. E ciò corre anche a rispetto dei sacerdoti regolari; mentre i vescovi in ciò son costituiti dal concilio delegati apostolici: Ipsi ut delegati sedis apostolicae prohibeant, mandent, corrigant, atque ad ea servanda censuris aliisque poenis compellant. Ma veniamo ad esaminare quanto tempo dee spendersi per celebrar la messa, per dirla senza difetto. Dice il p. Molina che il tempo di un'ora nel dir la messa non si dee tenere per eccedente. Nulladimeno il card. Lambertini colla sentenza comune degli altri autori conclude, che la messa non dee esser più lunga di mezz'ora né più breve di un terzo; poiché (dice) in tempo più breve d'un terzo ella non può celebrarsi colla dovuta riverenza; ed in tempo più lungo di mezz'ora riescirebbe di tedio agli assistenti. Ecco le sue parole: Non breviorem triente, nec longiorem dimidia hora debere esse missam; quia breviori spatio non possunt omnia debito honore peragi; et longiori, taedio esset adstantibus. Lo stesso si disse nel capitolo generale de' chierici regolari: Nemo missam longius horae semisse protrahat, neque triente contrahat. Lo stesso dicesi nelle costituzioni de' carmelitani scalzi: Missa privata per dimidiam circiter horam sed non ultra, extendatur. Lo stesso nelle regole della compagnia di Gesù: Semihoram in faciendo sacro nec multum excedat, neque ita brevis sit, ut illam non expleat. Lo stesso scrisse il p. Gobato dove spiegando il breviter, richiesto nella celebrazione da' dottori, dice intendersi il tempo di mezz'ora in circa: Breviter, id est circa dimidiam horam; vix enim breviori spatio possunt omnia in communibus missis peragi cum debito decore et devotione. E soggiunge, difficilmente potersi egli persuadere che (ordinariamente parlando) possa terminarsi la messa con divozione dentro il solo spazio d'un quarto d'ora: Nec facile quis mihi suadebit, se communiter cum sensu pietatis intra horae quadrantem finire sacrum. Dicendo parergli impossibile che la messa possa terminarsi in un quarto d'ora, senza commettervi molte imperfezioni. Quindi il p. Roncaglia tiene per certo non potersi scusar da peccato grave quel sacerdote che finisce la messa nello spazio minore d'un quarto d'ora: Nemo credat missam esse prolixam, si mediam horam non excedat, et nimis brevem, ut saltem tertiam partem horae non compleat, ut communiter dd. docent. Quia tamen qui infra quadrantem missam absolvit necesse est valde indevote celebrare, plura confundere, truncare, vel saltem syncopare, ideo communiter dicitur peccare mortaliter. Ex hoc autem oritur in episcopis et praelatis regularibus obligatio sub gravi turpem hanc et scandalosam celeritatem extirpare. E lo stesso dicono Pasqualigo ed altri comunemente appresso il citato cardinal Lambertini, come Quarto, Bisso, Clericato ecc. Posto ciò, dico doversi concludere che il sacerdote il quale celebra in minor tempo di un quarto d'ora qualunque messa (ancorché sia de' morti o della Madonna, de s. Maria in sabbato), difficilmente, per non dire impossibilmente, può essere scusato da peccato mortale, perché è impossibile terminar la messa nello spazio minore di un quarto, senza far grave irriverenza al sagrificio e senza dar grave scandalo al popolo. Ma udiamo le scuse che adducono i sacerdoti che strapazzano la messa. Per prima dice taluno: Io dico la messa breve, ma in niente manco, mentre per grazia del Signore sono spedito di lingua e di moto; sicché in breve tempo ben proferisco tutte le parole e fo esattamente tutte le cerimonie. Ma no, che non basta (rispondo) per dir la messa senza difetto, non basta proferir le parole e far le cerimonie in fretta, bisogna farle colla gravità conveniente, la quale anch'è intrinsecamente necessaria alla riverenza richiesta; altrimenti, se son fatte con celerità non formano più la riverenza né inducono la venerazione dovuta al sacrificio; ma (come di sopra si è dimostrato) formano grave irriverenza e grave scandalo agli assistenti. Ecco come parlano i dottori. Il p. Paolo Maria Quarto dice: Certum requiri tantum spatium, quod possit commode satis esse ad perficiendas caeremonias ea gravitate, quae tantum sacrificium decet. Lo stesso scrive Pasqualigo: Dicendum est satius esse declinare ad prolixitatem, quam ad accelerationem, quia maiestas sacrificii exigit potius illum modum, qui congruit gravitati actionis, quam declinationem ad oppositum. E di ciò ne dà la ragione, perché nell'accelerar la messa, non solo può esservi il peccato, ma anche lo scandalo; il quale non vi sarà nel prolungamento, che al più non causerà altro che un certo tedio negli assistenti. Qui missam praecipitant (conclude il mentovato Quarto) valde timendum est ne in infernum praecipitentur. Per secondo mi dirà che tra le condizioni le quali comunemente si assegnano da' dottori al modo come si ha da celebrar messa, vi è la brevità: Alte, breviter, dare, devote et exacte. Non però io primieramente dimando a chi parla così: ma, sacerdote mio, perché voi volete solamente attendere ad osservar questa sola condizione della brevità, e non già l'altre che sono devote et exacte? Ma inoltre ben la rubrica spiega, come s'intende quel breviter, cioè che la messa si dica, non nimis morose, ne audientes taedio afficiantur. Di più avvertasi che la rubrica stessa, dopo le suddette parole, immediatamente soggiunge, nec nimis festinanter. Quindi saggiamente scrive il Continuatore di Tournely: Brevis intelligitur, modo non destruat devotionem; unde si esset infra dimidium horae, non potest dici devota, et consequenter male diceretur. Pertanto soggiunge che la parola brevis dicesi per opporsi alla lunghezza affettata che apportasse notabil tedio agli ascoltanti. Del resto il medesimo autore conferma quel che disse Pasqualigo riferito di sopra: Melius est declinare in longitudinem, quam in brevitatem; quia cum longitudine non potest peccari graviter, et scandalum dari, sicut in nimis brevi. Disse una volta un certo sacerdote, per iscusare lo strapazzo ch'egli facea della sua messa: Ma s. Filippo Neri mettea mezzo quarto d'ora in dir la sua messa. Che melensaggine! È vero che s. Filippo, come dice lo scrittor della sua vita, quando stava in pubblico, celebrava la messa in breve tempo, ma per questo breve tempo non intendea certamente lo scrittore quello di mezzo quarto, né d'un quarto d'ora, intendea solo di escludere quella prolissità che apporta tedio ed è riprovata dalle rubriche; del resto nella stessa vita narrasi che 'l santo celebrava con tanta divozione la messa, anche in pubblico, che moveva a piangere per la compunzione ognuno che l'ascoltava. Colla messa d'un mezzo quarto non avrebbe mosso a piangere, ma più presto a ridere ed a burlarsi di lui. Per terzo replicherà: ma i secolari si lamentano e s'impazientano se la messa è lunga. Dunque, rispondo per prima, la poca divozione dei secolari ha da esser regola della venerazione dovuta alla messa? Inoltre rispondo che se i sacerdoti dicessero la messa colla riverenza e gravità richiesta, i secolari ben concepirebbero il rispetto che si dee ad un sagrificio così sagrosanto, e non si lagnerebbero nel dovervi assistere per mezz'ora; ma perché per lo più le messe son così brevi e così strapazzate, e non muovono a divozione, perciò i secolari, ad esempio de' sacerdoti che le dicono, vi assistono indivotamente e con poca fede; e se vedono poi che qualche sacerdote passa un terzo o un quarto d'ora, per lo mal uso fatto, si tediano e se ne lamentano; e dove non rincresce loro di stare per più ore ad un tavolino di giuoco o in mezzo ad una strada a perdere il tempo, si tediano poi a star per una mezz'ora a sentire una messa. Di tutto questo male son causa i sacerdoti: Ad vos, o sacerdotes, esclama il Signore, quia despicitis nomen meum, et dixistis: In quo despeximus nomen tuum? in eo quod dicitis, mensa Domini despecta est. Ciò significa che il poco conto che si fa da' sacerdoti della riverenza dovuta alla messa è causa ch'ella sia disprezzata ancora dagli altri. Per tanto, sacerdote mio caro, attendete voi a dir la messa come si dee, e non vi curate d'esser tacciato dagli altri. Contentatevi che vi lodi Iddio e gli angeli che vi assistono d'intorno all'altare. E se mai alcun personaggio, per autorevol che sia, vi dice che sbrighiate presto la messa, rispondetegli come rispose s. Teotonio canonico regolare a Tarasia regina di Portogallo, la quale avendo un affare di premura disse al santo che procurasse di sbrigar la messa. Ma il santo rispose esservi in cielo una regina molto più degna di lei, nel cui onore dovea celebrar quella messa; che per tanto, s'ella non potea trattenersi se n'andasse per li fatti suoi, ma ch'egli non potea mancar di riverenza al sagrificio, abbreviando il tempo che vi bisognava: Respondit aliam in coelo esse reginam longe meliorem, cui solemnia missae peragere disposuerat; in potestate eius esse vel missam audire vel penitus discedere. Ma che avvenne? la regina, entrata poi in se stessa, si fe' chiamare il santo, ed umiliata se gli gittò a' piedi, e piangendo propose di far la penitenza della sua temerità. Procuriamo intanto di emendarci, sacerdoti miei, se per lo passato abbiamo celebrato questo gran sagrificio con poca divozione e riverenza. Consideriamo la grande azione che andiamo a fare, quando andiamo a dir messa; e consideriamo il gran tesoro de' meriti che ci acquisteremo col celebrarla divotamente. Oh che bene è una messa per quel sacerdote che la dice con divozione! Scrive il discepolo: Oratio citius exauditur in ecclesia in praesentia sacerdotis celebrantis. Or se l'orazione d'un secolare è più presto esaudita da Dio, quando è fatta in presenza del sacerdote che celebra, quanto più presto sarà esaudita l'orazione che fa lo stesso sacerdote, se celebra con divozione? Chi dice la messa ogni giorno con qualche divozione riceverà sempre da Dio nuovi lumi e nuove forze; Gesù Cristo sempre più l'istruirà, lo consolerà, l'animerà, e gli concederà le grazie che desidera. Specialmente dopo la consacrazione sta sicuro il sacerdote che avrà dal Signore quanto dimanda. Dicea il ven. p. Antonio de Colellis pio operaio: Io, quando celebro e tengo Gesù Cristo nelle mie mani, ne ho quel che voglio. Per ultimo, parlando del rispetto che si dee a Gesù Cristo, che si sacrifica nella messa, non voglio lasciar di ricordare il precetto imposto da Innocenzo III: Praecipimus quoque ut oratoria, vasa, corporalia et vestimenta nitida conserventur; nimis enim videtur absurdum in sacris negligere quae dedecent in profanis. Ebbe troppa ragione questo pontefice di parlar così, poiché in verità alcuni non si vergognano di celebrare o di far celebrare gli altri con certi corporali; purificatoi e calici, de' quali essi non avrebber lo stomaco di servirsene nelle loro mense domestiche. Del ringraziamento dopo la celebrazione Per ultimo bisogna che 'l sacerdote, dopo d'aver celebrato, faccia il ringraziamento. Dice s. Gio. Grisostomo che se gli uomini per ogni picciol favore che ci fanno vogliono che noi siamo lor grati e lor ne rendiamo la ricompensa, quanto più dobbiamo noi esser grati con Dio dei gran beni che ci dona, mentr'egli non aspetta da noi ricompensa, ma solo per nostro utile vuol esserne ringraziato? Si homines parvum beneficium praestiterint, expectant a nobis gratitudinem, quanto magis id nobis faciendum in iis quae a Deo accepimus, qui hoc solum ob nostram utilitatem vult fieri? Se almeno (siegue a dire il santo) non possiamo ringraziare il Signore per quanto egli lo merita, almeno ringraziamolo per quanto possiamo. Ma che miseria e che disordine poi è il vedere tanti sacerdoti, che, finita la messa, dopo aver ricevuto da Dio l'onore di offerirgli in sagrificio il suo medesimo Figlio, e dopo d'essersi cibati del suo sagratissimo corpo, appena entrati in sagrestia, colle labbra ancor rosseggianti del suo sangue, recitata qualche breve orazione tra' denti, senza divozione e senza attenzione, subito mettonsi a discorrere di cose inutili o di faccende di mondo! o pure se n'escono dalla chiesa e si portano per le strade Gesù Cristo che ancora sta nel loro petto colle specie sagramentali. Con costoro bisognerebbe far sempre quel che fece una volta il p. Giovanni Avila, il quale vedendo un sacerdote uscir dalla chiesa subito dopo d'aver celebrato, lo fece accompagnare con due torce da due chierici; i quali, interrogati poi da quel sacerdote che andassero facendo, risposero: Andiamo accompagnando il ss. sagramento che portate dentro di voi. A questi tali va ben detto ciò che scrisse una volta s. Bernardo a Fulcone arcidiacono: Heu quomodo Christum tam cito fastidis! Oh Dio, e come così presto prendi in fastidio la compagnia di Gesù Cristo che sta dentro di te! Tanti libri divoti esortano ed inculcano il ringraziamento dopo la messa; ma quanti son poi que' sacerdoti che veramente lo fanno? Quei che lo fanno si possono mostrare a dito. E la meraviglia si è che alcuni fanno bensì l'orazione mentale, fanno diverse altre divozioni; ma poi poco o niente si trattengono dopo la messa in trattare con Gesù Cristo. Il ringraziamento dopo la messa non dovrebbe terminare che colla giornata. Dicea il p. m. Avila che dee farsi gran conto del tempo dopo la messa. Il tempo dopo la messa è tempo prezioso da negoziare con Dio e guadagnar tesori di grazie. Dicea s. Teresa: Dopo la comunione non perdiamo così buona opportunità di negoziare; non suole sua divina Maestà pagar male l'alloggio, se gli vien fatta buona accoglienza. Dicea di più la santa che Gesù dopo la comunione si mette nell'anima come in trono di grazie, e par che le dica, come disse al cieco nato: Quid vis ut tibi faciam? Dimmi, che vuoi ch'io faccia per te, mentre sto pronto a darti tutte le grazie che mi dimandi? Di più bisogna sapere ciò che insegnano più dottori, il Suarez, il Gonet ed altri, che l'anima, dopo la comunione, quanto più si dispone con atti buoni per tutto il tempo in cui durano le specie sagramentali, tanto maggior frutto ne ricava; poiché essendo stato istituito questo sagramento a modo di cibo, siccome il cibo terreno quanto più si trattien nello stomaco più nudrisce il corpo, così questo cibo celeste tanto più nudrisce l'anima di grazie, quanto più si trattien nel corpo, sempre che l'anima accresce con atti buoni la sua disposizione. Si aggiunga che in quel tempo ogni atto buono ha maggior valore e merito, giacché allora la persona sta unita con Gesù Cristo, secondo disse egli stesso: Qui manducat meam carnem, in me manet et ego in eo. E come dice il Grisostomo, allora Gesù Cristo ci fa una cosa con sé: Ipsa re nos suum efficit corpus. E perciò gli atti sono di maggior merito, perché son fatti dall'anima unitamente con Gesù Cristo. Ma all'incontro il Signore non vuol perdere le sue grazie cogl'ingrati, secondo quel che dice s. Bernardo: Numquid non perit, quod donatur ingratis? Pertanto il p. Avila ordinariamente dopo di aver celebrato tratteneasi per due ore in orazione a trattare con Gesù Cristo. Oh con quanta tenerezza ed affetto suol parlare Gesù Cristo all'anime dopo la comunione! e quante finezze d'amore suole usare con esse in tal tempo! Non sarebbe dunque gran cosa che ogni sacerdote si trattenesse almeno un'ora con Gesù Cristo dopo la messa. Almeno vi prego, sacerdote mio, a trattenervici per una mezz'ora; almeno per un quarto: ma oh Dio, è troppo poco un quarto! Disse s. Ambrogio: Verus minister altaris, Deo, non sibi, natus est. Se dunque il sacerdote, dal giorno ch'è stato ordinato non è più suo né del mondo né de' suoi parenti, ma è solo di Dio, a che dee spendere i giorni della sua vita, se non per Dio, e specialmente a stringersi con Gesù Cristo, dopo che l'ha ricevuto nella santa comunione? In fine voglio dir (così di passaggio) una parola circa il punto, se sia più accetto a Dio il dir la messa, o il non dirla per umiltà. E dico che l'astenersene per umiltà è atto buono, ma non è il migliore. Gli atti d'umiltà danno a Dio un onor finito, ma la messa gli dà un onore infinito, essendo onore che gli vien dato da una persona divina. Si noti quel che dice il ven. Beda: Sacerdos non legitime impeditus celebrare omittens, quantum in eo est, privat ss. Trinitatem gloria, angelos laetitia, peccatores venia, iustos subsidio, in purgatorio existentes refrigerio, ecclesiam beneficio, et se ipsum medicina. Il glorioso s. Gaetano, stando in Napoli, ed avendo inteso che in Roma un cardinale suo amico, il quale prima era solito di celebrare ogni giorno, di poi per causa degli affari avea cominciato a tralasciar la messa, il santo, con tutto che correva allora il tempo canicolare, non volle lasciare anche con pericolo della vita di portarsi in Roma a persuader l'amico che proseguisse l'uso antico; ed in fatti andò e poi se ne ritornò in Napoli. Narrasi ancora del p. Giovanni Avila che andando egli un giorno a dir messa in un romitaggio, s'intese per lo strapazzo del viaggio talmente indebolito, che diffidando di poter giungere a quel luogo, da cui stava ancor lontano, già disponea di restarsi e tralasciar la messa; ma gli apparve allora Gesù Cristo in forma d'un pellegrino, gli scoprì il petto, e facendogli veder le sue piaghe, e specialmente quella del sagro costato, gli disse: Quando io era impiagato, era più stracco ed indebolito di te; e ciò detto, disparve. Così il p. Avila si fece animo, andò e celebrò la messa. PARTE II L'OFFICIO STRAPAZZATO Due cose troppo grandi ed importanti si fanno da coloro che son deputati dalla chiesa a recitare il divino officio: si loda e si onora Dio, ed insieme s'impetrano le divine misericordie a tutto il popolo cristiano. In primo luogo dunque coll'officio si onora la maestà suprema del nostro Dio: Sacrificium laudis honorificabit me: et illic iter, quo ostendam illi salutare Dei. Io mi dichiaro onorato, dice il Signore, da chi mi offerisce sagrifici di lode; ed ivi troverà egli la via di ottenere la salute eterna. S. Maria Maddalena de' Pazzi, quando udiva il segno dell'officio, tutta si consolava e subito correva al coro, pensando ch'era chiamata a far l'officio degli angeli che sempre stanno a lodare Dio. E questo appunto è stato l'intento della chiesa, in destinare i suoi ministri a cantar le divine lodi, acciocché gli uomini in questa terra si unissero co' beati ad onorare il comun Creatore: Sed Illa sedes coelitum Semper, exultat laudibus: Illi canentes iungimur Almae Sionis aemuli. Dice s. Gregorio Nazianzeno che il canto de' salmi è il preludio delle lodi colle quali è onorato il Signore dai santi in cielo: Psalmorum cantus illius (coelestis) hymnodiae praeludium est. Sicché, come dice Tertulliano, noi recitando le ore canoniche acquistiamo quasi già il possesso del paradiso, facendo lo stesso officio che fanno i cittadini di quella bella patria beata. Quindi s. Caterina di Bologna sentiva tal giubilo nel recitar l'officio, che desiderava di finir la vita salmeggiando. In secondo luogo coll'officio si ringrazia Dio delle grazie ch'egli continuamente dispensa agli uomini, e si ottengono a' peccatori le sue divine misericordie. Dovrebbero tutt'i fedeli continuamente impiegarsi a ringraziare il Signore de' suoi benefici; e poiché tutti in questa terra han continuo bisogno del divino aiuto per resistere agli assalti de' nemici e per conseguire l'eterna salute, dovrebber tutti continuamente colle preghiere implorare i soccorsi della sua misericordia; ma perché i secolari vivono troppo distratti negli affari del mondo, perciò la santa chiesa ha destinati i suoi ministri, che in nome di lei e di tutto il popolo cristiano preghino sua divina Maestà in tutte l'ore del giorno. Che però l'officio è diviso in sette ore canoniche, affinché in ogni ora vi sia chi preghi per tutti e preghi nel miglior modo che si possa pregare, giacché l'officio divino non è altro che un memoriale che ci ha imposto lo stesso Dio per meglio esaudire le nostre preghiere, e soccorrere alle nostre necessità, giusta quel che ne dice per Isaia: Posui verba mea in ore tuo. A guisa d'un principe che desidera sollevare i suoi vassalli dalle loro miserie, e perciò egli stesso compone loro la supplica, onde lo preghino come si dee, e così egli possa meglio consolarli. Cento preghiere private non posson giungere al valore che ha una sola preghiera fatta nell'officio, perché questa è presentata a Dio in nome di tutta la chiesa, e gli è fatta colle stesse sue divine parole. Quindi dicea s. Maria Maddalena de' Pazzi, che a comparazione dell'officio ogni altra orazione o divozione è poco meritoria ed efficace appresso Dio. Persuadiamoci che dopo il santo sacrificio della messa non v'è nella chiesa maggior capitale e tesoro che l'officio divino, da cui possiamo ogni giorno ricavar fiumi di grazie. Ma dice s. Gregorio che la vera orazione non consiste solamente nella pronunzia delle parole, ma anche nell'attenzione del cuore; mentre molto più vagliono ad impetrar le divine misericordie i nostri buoni desideri, che le nostre semplici voci: Vera postulatio non est in vocibus, sed in cogitationibus cordis; valentiores namque voces apud aures Dei non faciunt verba nostra, sed desideria. È necessario pertanto, se vogliamo piacere a Dio, orare non solo colla voce, ma collo spirito e colla mente, come facea l'apostolo: Psallam spiritu, psallam et mente. Oh se i sacerdoti ed i religiosi dicessero tutti l'officio come si dee, non si vedrebbe certamente la chiesa nello stato deplorabile in cui si vede! Quanti peccatori uscirebbero dalla schiavitù del demonio, e quante anime amerebbero Dio con più fervore! ed i medesimi sacerdoti non si vedrebbero sempre gli stessi imperfetti, quali sempre si osservano, iracondi, golosi, attaccati all'interesse ed alle vanità. Ha promesso il Signore di esaudire ognuno che lo prega: Omnis enim qui petit, accipit. E come poi va che quel sacerdote fa mille preghiere in ogni giorno nel solo officio divino che recita, e non è mai esaudito? è sempre così debole e facile ricadere, non solo in colpe leggiere (nelle quali è abituato, senza però che se ne prenda pena né cura d'emendarsene), ma ancora in peccati gravi contro la carità, la giustizia o la castità; onde il misero, recitando le ore, egli stesso viene a maledirsi, quando dice: Maledicti qui declinant a mandatis tuis. E quel ch'è peggio, poco rimorso ne sente, scusandosi che, ancor esso è di carne come tutti gli altri, e che non si fida contenersi. Ma s'egli dicesse l'officio non così distratto e strapazzato come lo dice, ma divoto e raccolto, accompagnando col cuore le tante preghiere che in quello porge a Dio, non sarebbe al certo così debole com'è, ma acquisterebbe spirito e forza di resistere a tutte le tentazioni e di far vita santa, degna d'un sacerdote. Ma, dice s. Gregorio, come può il Signore esaudire le domande di colui il quale, non sa, quello che domanda, e neppur desidera d'esser esaudito? Illam orationem non audit Deus, cui, qui orat, non intendit. E come tu puoi pretendere, soggiunge s. Cipriano, di essere inteso da Dio, quando tu non intendi te stesso? Quomodo te audiri postulas, cum te ipsum non audias? Dicea l'apostolo che non può essere fatta con frutto quell'orazione ch'è proferita dalla sola lingua senza l'attenzion della mente: Si orem lingua, mens autem mea sine fructu est. Sicché l'orazione fatta con attenzione ed affetto è quel fumo odoroso ch'è molto grato a Dio, e ne riporta tesori di grazie; così per contrario l'orazione indivota e distratta è un fumo puzzolente che muove a sdegno Dio e ne riporta castighi. Di ciò appunto Iddio si lamentò un giorno con s. Brigida, dicendole che i sacerdoti perdono tanto tempo tutto giorno, trattenendosi a parlar con amici di cose di mondo, e poi si danno tanta fretta parlando con esso nel recitar l'officio, col quale in vece di onorarlo più presto lo disonorano. Perciò dicea s. Agostino che, più piace a Dio il latrato de' cani, che il canto di tali sacerdoti. Oh Dio! qual risentimento non farebbe un principe, se vedesse un vassallo che, mentre lo sta pregando di qualche grazia, sta tutto distratto, discorrendo con altri e pensando ad altre cose, e perciò non sa che si dice? Quindi scrisse l'angelico, che non può scusarsi da peccato ognuno che facendo orazione (benché senza obbligo), volontariamente si divaga colla mente, mentre par che costui voglia disprezzare Dio, siccome fa quegli che, parlando con una persona, non attende a quello che dice: Non est absque peccato quod aliquis orando evagationem mentis patiatur: videtur enim contemnere Deum, sicuti si alicui homini loqueretur, et non attenderet ad ea quae ipse profert. Ohimè! di quanti sacerdoti si lagnerà il Signore, come si lagnò una volta de' giudei: Populus hic labiis me honorat, cor autem eorum longe est a me! E di quanti potrà anche dirsi quel che scrisse Pietro Blessense: Labia sunt in canticis, et animus in patinis! La loro bocca sta impiegata ne' salmi, ma il cuore sta nei piatti, applicato a pensare come meglio possono contentare la gola, o pure la vanità, l'ingordigia de' danari, o di altre simili cose di terra. Disse il concilio di Treveri: Quid est voce psallere, mente autem domum aut forum circuire, nisi homines fallere, et Deum irridere? Che altro è mai il salmeggiar colla voce, e colla mente andar poi girando per le case e per le piazze, se non ingannare gli uomini, facendo lor credere ch'essi lodino Dio, quando più presto eglino lo deridono parlandogli colla bocca, ma tenendo il cuore in ogni altra cosa occupato, fuorché in lodarlo e pregarlo. Quindi (giustamente conclude s. Basilio) essendo vero che per impetrare le grazie bisogna pregare con attenzione e con fervore, colui dunque che orerà colla mente divagata in cose impertinenti, non solo non impetrerà grazie, ma provocherà maggiormente il Signore a sdegno: Divinum auxilium est implorandum non remisse, nec mente huc vel illuc evagante; eo quod talis non solum non impetrabit, sed magis Dominum irritabit. Disse il Signore per Malachia, che egli maledice le lodi che gli danno quei sacerdoti, i quali colla sola voce lo benedicono, ma tengono il cuore in ogni altra cosa occupato, fuorché in dargli onore e gloria: Et nunc ad vos mandatum hoc, o sacerdotes, si nolueritis ponere super cor, ut detis gloriam nomini meo, ait Dominus exercituum... maledicam benedictionibus vestris. Quindi a quel misero sacerdote che dice l'officio così strapazzato avviene appunto quel che si dice nel salmo 108: Diabolus stet a dexteris eius; cum iudicatur exeat condemnatus et oratio eius fiat in peccatum. Mentre recita quelle divine lodi, or tra' denti, or dimezzando le parole, or parlando e burlando con altri, e colla mente tutta dissipata e distratta in affari e piaceri di terra, allora l'assiste a lato il demonio; la sua mercede per tale officio sarà la condannazione eterna, poiché la medesima sua orazione gli è imputata a peccato, per la maniera indegna con cui la fa, e ciò appunto significano quelle parole: Et oratio eius fiat in peccatum. E perciò il demonio tanto si affatica, in tempo che recitiamo l'officio, a metterci innanzi gli occhi della mente tante faccende, desideri e pensieri di mondo, acciocché noi, occupando in quelli, perdiamo ogni frutto che dall'officio potremmo ricavare, e di più ci rendiamo rei avanti a Dio del poco rispetto, con cui lo trattiamo. Ma per lo stesso caso dobbiamo noi mettere tutta la cura per recitar le divine lodi coll'attenzione dovuta. Dicea un saggio religioso, che quando mancasse il tempo, bisogna abbreviar anche l'orazione mentale, e dar più tempo all'officio, per dirlo con quella divozione che gli si conviene. A proposito di ciò sta scritto nelle regole de' certosini: Spiritus sanctus gratum non recipit quidquid aliud, quam quod debes, obtuleris neglecto eo quod debes. Non gradisce Dio qualunque altra cosa tu gli offerisca di divozione, se poi trascuri quello a cui sei obbligato. Ma lasciamo ogni altra riflessione, e veniamo, alla pratica, per recitare l'officio con quell'attenzione e divozione che si dee. Prima d'ogni altra cosa, dice s. Giovan Grisostomo, che in entrare nella chiesa (o in prender in mano il breviario) per soddisfare all'obbligo dell'officio divino, bisogna lasciare avanti la porta e licenziar da noi tutti i pensieri di mondo: Ne quis ingrediatur templum curis onustus mundanis, haec ante ostium deponamus. Ciò appunto è quel che esorta lo Spirito santo: Ante orationem praepara animam tuam. Considera che allora t'incarica la chiesa come suo ministro di andare a lodare il Signore, e ad impetrare le sue divine misericordie per tutti gli uomini, immaginati che ivi ti stanno attendendo gli angeli, come vide una volta il b. Ermando, con turiboli alla mano, per offerire a Dio le tue orazioni qual incenso odoroso di santi affetti, secondo dice il salmista: Dirigatur oratio mea, sicut incensum in conspectu tuo. Che perciò l'apostolo s. Giovanni vide gli angeli i quali habebant phialas plenas odoramentorum, quae sunt orationes sanctorum. Pensa insomma che allora vai a parlare con Dio ed a trattar seco lui del bene tuo e di tutta la chiesa; e sappi che allora egli ti sta guardando con più amore, e maggiormente tiene aperto l'orecchio alle dimande che tu gli presenti. Per tanto al principio offeriscigli quelle lodi in suo onore e pregalo che ti liberi dalle distrazioni, e ti dia luce ed aiuto per lodarlo e pregarlo come si dee; ed a questo fine recita con attenzione la solita orazione: Aperi, Domine, os meum ad benedicendum etc. In cominciando l'officio non ti dar fretta per terminarlo quanto più presto si può, come fanno taluni, e volesse Dio che non fossero la maggior parte! Oh Dio mio! già si fa la fatica, l'officio già si dice, e poi per non mettervi un poco più di tempo, che vi vuole per dirlo con divozione, vogliamo dare disgusto a Dio, e perderci le grazie ed i meriti che potremmo guadagnarci, dicendo l'officio coll'applicazione che vi bisogna. Conviene ancora mettersi in sito decente e modesto. Se non vogliamo dirlo inginocchioni o in piedi, almeno sedendo procuriamo di non istare scomposti. Narrasi che mentre due religiosi recitavano il mattutino scompostamente assisi, e quasi buttati sul letto, comparve un demonio che sparse ivi una puzza intollerabile, e poi disse per ischerno: a quest'orazione che voi fate questo incenso si conviene: Ad talem orationem tale debetur incensum. Gioverà molto per dir l'officio con divozione mettersi innanzi alle immagini del Crocifisso e di Maria ss.; affinché di quando in quando rimirandole possiamo rinnovar l'intenzione e gli affetti divoti. Applicatevi intanto, mentre recitate i salmi, se volete ricavarne gran frutto, a rinnovare di tempo in tempo l'attenzione e gli affetti: Ne quod tepescere coeperat (dice s. Agostino), omnino frigescat, et penitus extinguatur, nisi crebrius inflammetur. Acciocché la divozione che col progresso si raffredda affatto non si estingua, se spesso non si attende ad infervorarla. Già è noto che di tre sorte è l'attenzione che può mettersi all'officio; e parlo qui dell'attenzione interna, perché in quanto all'esterna è ben necessario che ci asteniamo da ogni azione ch'è incompossibile coll'interna, come sarebbe lo scrivere, il discorre con altri, o il mettersi di proposito ad ascoltare altri che parlano, e cose simili che richiedono molta applicazione della mente. E di più bisogna qui notare quel che avvertono i dottori, cioè che si pongono a gran pericolo di non soddisfare all'officio coloro che lo recitano nelle piazze o in altri luoghi molto esposti alle distrazioni. Ma ritornando all'attenzione interna, questa può aversi in tre modi, alle parole, al senso, e a Dio, come insegnano comunemente i teologi coll'angelico, il quale dice: Triplex est attentio quae orationi vocali potest adhiberi: Una quidem, qua attenditur ad verba, ne aliquis in eis erret: Secunda, qua attenditur ad sensum verborum: Tertia, qua attenditur ad finem orationis, scilicet ad Deum et ad rem pro qua oratur. La prima attenzione dunque è alle parole, applicandosi la persona a proferir bene le parole, cioè intiere e distinte. La seconda è al senso, attendendo a comprendere il significato delle parole, affin di congiungervi anche l'affetto del cuore. La terza, ch'è la migliore, è a Dio, stando colla mente a Dio (mentre si ora) adorandolo, ringraziandolo, o amandolo, o pure chiedendogli le sue grazie. La prima attenzione, sempre che vi è stata a principio l'intenzione di orare, basta per soddisfare all'obbligo, non astringendo la chiesa ad altro, come insegna s. Tommaso in altro luogo: Prima est attentio ad verba, quibus petimus, deinde ad petitionem ipsam: et quaecumque earum attentionum adsit, non est reputanda inattenta oratio. Ma chi dice l'officio con questa sola e nuda attenzione alle parole, senza alcuna applicazione delle due altre attenzioni, non lo dirà mai con divozione né senza molti difetti né con molto frutto. E qual gran frutto mai può riportare dal suo officio quel sacerdote che attende solo a recitarlo colla bocca, cercando di sbrigarlo quanto può, per liberarsi presto da quel peso come chi avesse a scaricarsi da un fascio di legna che tiene sulle spalle? o pure come chi si facesse forza per inghiottir presto una pillola amara? Peggio poi, se in mezzo alla recitazione non lascia di dissiparsi or girando gli occhi d'intorno a mirar oggetti distrattivi, ed ora talvolta frammezzandovi anche parole impertinenti. Narra s. Bonaventura, che in Parigi, mentre un buon sacerdote dicea l'officio, un certo prelato l'interrogò d'un affare, ma egli altro non rispose, se non che stava parlando con un personaggio più degno di lui, e perciò non potea soddisfarlo, ed inchinando la testa seguì a recitare. All'incontro, riferisce il medesimo santo che un altro ecclesiastico per causa delle interruzioni fatte nell'officio era stato condannato ad un gran purgatorio. Non si dice già che dobbiamo inquietarci o affliggerci per le distrazioni involontarie che ci molestano nell'officio. Sempre che noi non le vogliamo, non v'è difetto. Ben compatisce il Signore la nostra infermità, poiché spesso i pensieri impertinenti vengono in noi senza nostra chiamata, e perciò essi non possono impedire il frutto delle orazioni che facciamo: In spiritu et in veritate orat (dice l'angelico), qui ex instinctu spiritus ad orandum accedit, etiam si ex infirmitate aliqua mens postmodum evagetur. Ed aggiunge che anche alle anime elevate alla contemplazione avviene che non possono star lungo tempo in alto, ma dal peso dell'umana miseria son tirate al basso di qualche involontaria distrazione: Mens humana diu stare in alto non potest; pondere enim infirmitatis humanae deprimitur ad inferiora. Et ideo contingit, quod cum mens orantis ascendit in Deum per contemplationem, subito evagetur. All'incontro, dice il santo dottore, che non può essere scusato da colpa, né può riportar frutto dalla sua orazione, chi orando volontariamente e di proposito si distrae in pensieri alieni: Si quis ex proposito in oratione mente evagatur, hoc peccatum est et impedit orationis fructum. Di proposito poi s'intende, come dicono comunemente i dottori, quando la persona avverte già che sta distratta e vuol seguire a distrarsi. Contra cui s. Cipriano esclama e dice essere una impertinenza troppo insopportabile agli occhi di Dio, il veder taluno che, mentre lo sta pregando, si mette a pensare ad altro, come vi fosse cosa più importante del parlare con Dio per implorarne le sue grazie: Quae segnitia est alienari cum Dominum precaris, quasi sit aliud quod debeas magis cogitare, quam cum Deo loquaris. Quindi scrisse s. Bernardo: Voluntas neglecta facit cogitationes indignas Deo, pia efficaces ad fructum spiritus. Siccome la volontà rende i nostri pensieri efficaci ad acquistar frutti di spirito, così la volontà trascurata li rende indegni di Dio, e perciò meritevoli, non di grazie, ma di castighi. È celebre nelle croniche cisterciensi la visione ch'ebbe s. Bernardo, mentre una notte salmeggiava nel coro co' suoi monaci. Vide egli al lato d'ogni monaco un angelo che scriveva; alcuni angeli scriveano con oro, altri con argento, altri con inchiostro, altri con acqua, altri finalmente stavano colla penna sospesa senza scriver cosa alcuna. Indi il Signore fe' intendere al santo che le orazioni scritte con oro significavano il fervore di carità con cui erano recitate; quelle con argento dinotavano divozione, ma minor fervore; quelle con inchiostro dinotavano la diligenza in proferir le parole, ma senza divozione; quelle con acqua dinotavano la negligenza di coloro che, distratti, poco attendeano a ciò che proferivano colla lingua; gli angeli finalmente che nulla scriveano dinotavano l'insolenza di coloro che volontariamente si distraevano. All'incontro, s. Roberto abate, stando anche nel coro, ebbe un'altra visione. Vide il demonio che, andando in giro e trovando chi stava sonnacchioso, lo dileggiava; trovando poi alcuno distratto, ne facea gran festa, dimostrando che in colui molto guadagnava. Per tanto, sacerdote mio, quando prendete in mano il breviario, figuratevi che da un lato vi assista un angelo che noti nel libro della vita i vostri meriti, se dite l'officio con divozione; e dall'altro lato il demonio che scriva le vostre colpe nel libro della morte, se lo dite distratto. E con questo pensiero, eccitatevi a recitarlo colla maggior divozione che potete avere. Procurate perciò, non solo in cominciar l'officio, ma anche in principio d'ogni salmo, di rinnovar l'attenzione, acciocché possiate accompagnar col cuore tutt'i sentimenti che vi leggerete: Cum oratis Deum, scrisse Cassiano, hoc versetur in corde, quod profertur in ore. Quindi dice s. Agostino, Si psalmus orat, orate; si gemit, gemite; si sperat sperate. Notò l'angelico, che le parole divote proferite colla bocca eccitano la divozione nella mente: Verba significantia aliquid ad devotionem pertinens, excitant mentes. E vuol dire che perciò il Signore ci ha insegnato a pregar colla voce, affinché recitando le nostre orazioni ci applichiamo colla mente a chiedere quel che pronunziamo colla lingua. E questo appunto è quel che si legge nel celebre canone Dolentes, del V concilio Lateranense, che l'officio si reciti studiose et devote, quantum Deus dederit: studiose, col proferir bene le parole; devote, con applicare il cuore a quel che si proferisce. Bisogna persuaderci di quel che dice s. Agostino, cioè, che l'impetrazione delle grazie che desideriamo per noi e per gli altri più si ottiene coi gemiti del cuore, che colle voci della bocca: Hoc negotium plus gemitibus, quam sermonibus, agitur. Riferisce Cassiano, che i monaci dell'Egitto diceano esser più utile cantar solo dieci versi con affetto e con pausa, che un intiero salmo con distrazione di mente: Utilius habent decem versus cum rationabili assignatione cantari, quam totum psalmum cum confusione mentis effundi. Oh quanti lumi e grazie si ricevon dai salmi, quando si dicono con pausa e riflessione! Dice s. Epifanio: Psalmus mentem, illuminat, in coelum reducit, homines familiares Deo reddit, animam laetificat. Il salmo illustra la mente, rallegra l'anima, l'indirizza al cielo e la rende familiare a Dio. È vero che molti passi de' salmi sono oscuri e difficili ad intendersi senza spiegazione; ma molti altri son facili e chiari, che ravvivano la nostra fede, la confidenza, l'amore verso Dio e i buoni desideri. Ravvivano la fede, mettendo avanti gli occhi le verità eterne dell'esistenza di Dio, della creazione del mondo, e de' novissimi, dell'immortalità dell'anima. Specialmente qual vigore non danno alla nostra fede le tante predizioni che ivi si leggono della grand'opera della nostra redenzione, fatte tanti secoli prima ch'ella avvenisse? Predisse già Davide in tanti luoghi la venuta del Redentore: Redemisti me, Domine, Deus veritatis. Redemptionem misit populo suo, Copiosa apud eum redemptio. Predisse particolarmente più cose della passione del Salvatore. Predisse il concilio de' principi de' sacerdoti, quando si congregarono per macchinar la morte a Gesù Cristo: Principes convenerunt in unum adversus Dominum, et adversus Christum eius. Predisse la di lui crocifissione: Foderunt manus meas et pedes meos, dinumeraverunt omnia ossa mea. Predisse la divisione che si fecero i carnefici delle sue vesti, e la sorte che posero per giocarsi la veste interiore ch'era inconsutile: Diviserunt sibi vestimenta mea, et super vestem meam miserunt sortem. Predisse la sete di Gesù Cristo, e 'l fiele mischiato con aceto che gli diedero a bere sulla croce: Et dederunt in escam meam fel, et in siti mea potaverunt me aceto. Predisse anche la conversione delle genti: Convertentur ad Dominum universi fines terrae, et adorabunt in conspectu eius universae familiae gentium. Quanti belli affetti poi di confidenza in Dio vi sono ne' salmi! In te, Domine, speravi, non confundar in aeternum. In manus tuas commendo spiritum meum, Quoniam in me speravit, liberabo eum. Laudans invocabo Dominum, et ab inimicis meis salvus ero, Protector est omnium sperantium in se, Dominus firmamentum meum et refugium meum et liberator meus, Vivet anima mea et laudabit te. Misericordias Domini in aeternum cantabo, Spiritus tuus bonus deducet me in terram rectam. Dominus illuminatio mea et salus mea, quem timebo, Sperantem autem in Domino misericordia circumdabit. Fiat misericordia tua, Domine, super nos, quemadmodum speravimus in te. Quanti atti d'amore! Diligam te, Domine, fortitudo mea. Quid mihi est in coelo? et a te quid volui super terram? Deus cordis mei, et pars mea in aeternum. Sitivit in te anima mea, quam multipliciter tibi caro mea, Satiabor cum apparuerit gloria tua, Confiteantur tibi populi, Deus, confiteantur tibi populi omnes. Magnificate Dominum mecum, et exaltemus nomen eius in id ipsum, Memor fui Dei et delectatus sum. Paratum cor meum, Deus, paratum cor meum. Quemadmodum desiderat cervus ad fontes aquarum, ita desiderat anima mea ad te, Deus, Quando veniam et apparebo ante faciem Dei? Quanti atti di ringraziamento! Quid retribuam Domino pro omnibus quae retribuit mihi? Venite, audite, et narrabo, omnes qui timetis Deum, quanta fecit animae meae. Quanti atti d'umiltà! Nisi quia Dominus adiuvit me, paulo minus habitasset in inferno anima mea. Eruisti animam meam ex inferno inferiori. Et non intres in iudicium cum servo tuo, quia, non iustificabitur in conspectu tuo omnis vivens. Ego autem sum vermis et non homo, opprobrium hominum et abiectio plebis. Erravi sicut ovis quae periit, quaere servum tuum. Quanti atti di pentimento! Iniquitatem odio habui et abominatus sum. Exitus aquarum deduxerunt oculi mei, quia non custodierunt legem tuam. Fuerunt mihi lacrymae meae panes die ac nocte, dum dicitur mihi quotidie, ubi est Deus tuus? Quanti buoni propositi! Et custodiam legem tuam semper, In aeternum non obliviscar iustificationes tuas. Iuravi et statui custodire iudicia iustitiae tuae. Ab omni via mala prohibui pedes meos ut custodiam verba tua. Legem tuam in medio cordis mei. Docebo iniquos vias tuas. Quasi tutti poi i salmi son pieni di mille sante preghiere. Solamente nel salmo 50 quante belle preghiere vi sono! Miserere mei, Deus, secundum magnam misericordiam tuam. Averte faciem tuam a peccatis meis. Cor mundum crea in me, Deus. Ne proiicias me a facie tua. Spiritu principali confirma me. Quante altre preghiere nel solo salmo 118 che si recita ogni giorno nelle ore picciole! Doce me iustificationes tuas. Revela oculos meos. Viam iniquitatis amove a me. Averte oculos meos ne videant vanitatem. Da mihi intellectum et discam mandata tua. Fiat misericordia tua ut consoletur me. Non confundas me ab expectatione mea. Adiuva me et salvus ero. Suscipe servum tuum in bonum. Aspice in me et miserere mei. Intellectum da mihi et vivam. Gressus meos dirige secundum eloquium tuum. Clamavi ad te, salvum me fac ut custodiam mandata tua. Vide humilitatem meam et eripe me. Intret postulatio mea in conspectu tuo. Tuus sum ego, salvum me fac. Fiat manus tua ut salvet me. Doce me facere voluntatem tuam. Per gli altri passi poi che sono oscuri, io non dico esservi obbligo di studiare gl'interpreti; ma dico all'incontro che un tale studio certamente è una delle applicazioni più divote e utili che può avere un sacerdote, siccome consigliò il concilio di Milano: Interpretationem studio adsequatur, unde mens animusque ad aliquem salutarem affectum incendatur. A tal fine gioverebbe leggere il cardinal Bellarmino sovra i salmi. Le preghiere poi più care a Dio son quelle che abbiamo nel Pater noster, ch'è l'orazione fra tutte la più eccellente, insegnataci dalla stessa bocca di Gesù Cristo; che perciò la s. chiesa vuole che tante volte la replichiamo nell'officio. Specialmente quanto sono belle le prime tre preghiere che sono insieme tre atti perfettissimi di amore: Sanctificetur nomen tuum: Adveniat regnum tuum: Fiat voluntas tua sicut in coelo et in terra! Nella prima, Sanctificetur nomen tuum, noi imploriamo che Dio si faccia conoscere ed amare da tutti gli uomini. Nella seconda, Adveniat regnum tuum, gli domandiamo ch'egli possieda intieramente i nostri cuori, regnando in essi colla sua grazia in questa vita e colla gloria nell'altra. Nella terza, Fiat voluntas tua etc., gli domandiamo il dono della perfetta uniformità, sì che facciamo la sua volontà in questa terra, siccome la fanno i beati in cielo. Nel replicare poi tante volte il Gloria Patri, quanti divoti affetti possiamo fare di fede, di lode, di ringraziamento, di compiacenza della felicità e perfezioni di Dio! S. Maria Maddalena de' Pazzi ogni volta che diceva il Gloria Patri, inchinando la testa, figuravasi d'offerirla al carnefice in onor della fede. Inoltre la s. chiesa vuole che in principio di tutte l'ore dell'officio salutiamo e ricorriamo alla Madre di Dio Maria: per mezzo di cui allora quante grazie possiamo ottenere, giacch'ella è chiamata la tesoriera e la dispensiera di tutte le divine misericordie! Termino. Molti sacerdoti, stimano, e chiamano gran peso l'obbligo del divino officio, ed io dico che han ragione di chiamarlo così quei che lo dicono strapazzatamente, senza divozione o con impegno di finirlo presto; perché in fatti han già da stentare almeno per un'ora a recitarlo senza gusto e con gran pena. Ma a coloro che lo dicono con divozione, gustando colla mente tanti divoti sentimenti che ivi sono espressi, ed accompagnando col cuore i santi affetti e preghiere che ivi si porgono a' Dio, non è già peso l'officio, ma è sollievo delizia dello spirito, come già avviene a' buoni sacerdoti: e se mai vuol dirsi peso, è peso di ale che ci solleva ed unisce a Dio. APPENDICE Regolamento di vita per un sacerdote secolare In levarsi la mattina faccia gli atti di ringraziamento, d'amore, di offerta di tutto ciò che farà e patirà in quel giorno, colla preghiera in fine a Dio ed alla b. Vergine, acciocché l'aiutino a fuggire ogni peccato. Indi faccia mezz'ora d'orazione mentale sopra le massime eterne o sulla passione di Gesù Cristo, la cui meditazione per altro è più propria al sacerdote prima di celebrare, giacché va a rinnovare la memoria sull'altare con offerire a Dio la stessa vittima e lo stesso sacrificio. Nell'orazione poi, letto che avrà il punto, s'impieghi a fare atti di dolore e d'amore, e più spesso preghiere a Dio, affinché gli doni la perseveranza nella sua grazia e 'l suo divino amore. E non lasci l'orazione per qualunque tedio e pena che vi senta; se la lascerà si metterà in gran pericolo di perder Dio. Quando altro non potesse dire in quella, che Dio mio aiutatemi, Gesù mio misericordia, l'orazione sarà ottima e gli sarà di gran frutto. Acciocché poi l'orazione riesca più raccolta, si chiuda allora dentro qualche stanza da solo a solo col crocifisso; e perciò si procuri con ogni sforzo di tenere la sua camera a parte. Che se mai non potesse poi averla, sarà meglio che l'orazione la faccia in chiesa che in casa, in mezzo al romore d'altri che passeggiano e parlano. Indi dirà le ore sino a nona, e dopo andrà a celebrare. Sarebbe spediente, sempre che non vi fosse altro impedimento, che la messa la dicesse prima degli altri affari, acciocché celebrasse con più di raccoglimento. Oltre la meditazione fatta, non lasci di fare ancora un altro breve apparecchio alla messa, con ravvivare la fede di quel che va a fare: e faccia almeno questi tre atti d'amore, di dolore e di desiderio di unirsi con Gesù Cristo. Dopo la messa non lasci di fare il ringraziamento di un'ora o almeno di mezz'ora, trattenendosi a far atti d'amore, di offerta e preghiere. Il tempo dopo la messa è tempo di guadagnar tesori di grazie. Quando si trovasse desolato di spirito e non sapesse allora che farsi, almeno legga qualche libretto spirituale di affetti devoti verso Gesù Cristo. Indi fatto il ringraziamento, si metta al confessionario, se è confessore. Avvertendosi qui che ne' giorni di gran concorso, come di qualche festa solenne, allora potrà abbreviare il ringraziamento per sentir le confessioni. Ma ciò s'intende in simili casi che son rari; del resto il confessore ordinariamente non dee lasciare il suo solito ringraziamento alla messa, acciocché le penitenti non aspettino. Quando non però venissero a confessarsi uomini che non sogliono frequentare i sagramenti, sarà bene che li senta prima di dir messa, perché questi non han pazienza di aspettare; e se lasciano di confessarsi in quel giorno, Dio sa quando si confesseranno. Il sacerdote poi che non è confessore, si ritiri in casa a studiare. Si avverte qui non pretendersi che tutti gli esercizi in questo regolamento descritti abbiano ad adempirsi collo stesso ordine come stanno qui notati; basta che si facciano dentro la giornata, che poi si faccia prima l'uno che l'altro, secondo riuscirà più comodo alla persona, poco importa. Come infatti per esempio in tempo d'inverno, nel quale fa giorno al tardi, allora nella mattina, dopo l'orazione e l'officio, potrà fare lo studio di una o due ore. Del resto un sacerdote che vuol far vita da sacerdote bisogna che stabilisca il tempo e l'ore di tutti i suoi esercizi, acciocché tutto vada con ordine stabile, e non faccia come fanno taluni che non hanno alcun ordine nelle cose loro. La vita disordinata è simbolo dell'inferno che vien chiamato da Giobbe: Terram miseriae, ubi nullus ordo, sed sempiternus horror inhabitat. Lo studio lo farà o sulla morale per rendersi abile ad amministrare il sagramento della penitenza o in farsi le prediche o in altre cose simili che conducono alla propria istruzione o a benefizio dell'anime. Venuta l'ora di pranzo, pranzerà sobriamente, secondo conviene ad un sacerdote; e non farà come fanno certi sacerdoti golosi, i quali vogliono che tutta la casa stia applicata a preparar loro diverse vivande, e fatte secondo essi l'ordinano sin dalla mattina; e se poi non vengono quelle a lor soddisfazione, disturbano e mettono a romore tutti i servi e parenti. Dicea s. Filippo Neri: Chi attende a contentar la gola non si farà mai santo. E se il sacerdote dee usar la sobrietà nel cibo, più dee usarla nel bere del vino, il di cui eccesso è più pernicioso allo spirito e specialmente alla castità. Nel sabbato procuri di fare il digiuno, almeno comune se non si confida di farlo in pane ed acqua, in onore della ss. Vergine; almeno si contenti in quel giorno d'una sola vivanda; ed in qualche altro giorno della settimana, come nel mercoledì e venerdì, come anche in tutte le novene della Madonna, almeno si astenga a mensa da qualche cosa. Nel giorno poi dopo il riposo dirà il vespro e compieta, e farà la lezione spirituale per mezz'ora. Per la lezione potrà servirsi dell'erario della vita cristiana del p. Sangiurè, o pure della perfezione religiosa del p. Rodriguez (libri che son pieni di spirito e d'unzione), o d'altri, ma sopra tutto ami di leggere vite di santi, come di s. Filippo Neri, di s. Francesco Borgia, di s. Pietro d'Alcantara e simili. Negli altri libri spirituali si leggono le virtù in teorica, ma nelle vite de' santi si leggono le virtù in pratica, il che muove assai più all'imitazione. S. Filippo Neri non faceva che esortare a' suoi penitenti di leggere vite di santi. Molti santi, come s. Giovan Colombino, s. Ignazio di Loiola e s. Teresa di Gesù, non da altro ebber la mossa a darsi tutti a Dio, che dalle lezioni delle vite di alcuni santi. Indi andrà a far la visita al ss. sagramento. Molti secolari puntualmente ogni giorno fanno la visita al venerabile, e non la tralasciano per qualunque affare, e con qualunque incomodo; ma parlando de' sacerdoti secolari, rari, anzi rarissimi son quelli che la fanno. Bisogna dire che troppo mala fortuna incontra Gesù Cristo coi sacerdoti. Tutto nasce dal poco amore che i sacerdoti portano a Gesù Cristo. Chi ama assai un amico, cerca quanto più spesso può di rivederlo, e tanto più se l'amico molto gradisce le di lui visite. Per visita poi non solamente intendo qualche Pater noster detto di passaggio e distrattamente davanti al sagro altare; intendo di trattenersi per qualche spazio notabile a fare affetti divoti verso Gesù sagramentato, e a domandargli grazie, specialmente il dono della perseveranza finale e del suo santo amore. Oh Dio! e chi mai più spesso e per più lungo tempo, dovrebbe andare a trattenersi con Gesù Cristo, che un sacerdote, il quale ogni giorno lo fa scendere dal cielo in terra, lo prende colle sue mani, si ciba delle sue carni sagrosante, ed anche per suo bene lo ripone nella custodia, per trovarlo presente sempre che vuole? Dopo la visita al sagramento non lasci di fare nella stessa chiesa la visita alla divina Madre in qualche immagine alla quale ha più divozione. Indi potrà andare a sollevarsi un poco passeggiando in qualche villa o via solitaria, unitamente con qualche sacerdote o altra persona spirituale che parli di Dio, non di mondo. In altro caso vada solo, perché altrimenti accompagnandosi con qualche uomo di mondo perderà tutto il raccoglimento ricavato da' suoi divoti esercizi fatti. Se potesse poi allora andare all'accademia di morale, farebbe meglio; perché ciò anche gli sarebbe di sollievo e di più gli riuscirebbe di frutto. Nella sera poi è bene che faccia un'altra mezz'ora d'orazione mentale, e meglio sarebbe che quest'orazione la facesse (s'è possibile) con tutta la gente di casa, leggendo egli i punti della meditazione, e terminandola cogli atti cristiani. Indi reciterà mattutino colle laudi, ed appresso farà un'altra ora di studio; e dopo reciterà il rosario di cinque poste, unitamente anche con quei di casa, enunciando i misteri che debbono contemplarsi, ed aggiungendovi in fine le litanie della ss. Vergine. Al rosario seguirà la cena, nella quale dee usarsi maggior sobrietà che nel pranzo della mattina; perché se mai nella sera la persona si carica di cibo eccedente, nella mattina poi, in cui dovrà far tanti esercizi divoti, la meditazione, dir la messa, sentirle confessioni, trovandosi pieno di stomaco, patirà non solo nello stomaco, ma anche nella testa, e così tutto riuscirà con distrazione e tedio, e sarà mezzo perduto. Alla cena seguirà l'esame di coscienza coll'atto di dolore ed altri atti divoti; e dette tre Ave alla Vergine colla faccia per terra colle altre divozioni in onore de' santi avvocati, si metterà a riposare. Ciò in quanto agli esercizi giornali. Si confessi poi, due o almeno una volta la settimana. E non manchi di tenere il suo direttore particolare dal quale dipenda in tutti gli esercizi spirituali, ed anche in tutti gli affari temporali che possono giovare o nuocere allo spirito. In ogni mese faccia un giorno di ritiro: in quel giorno licenzierà ogni negozio temporale, ed anche spirituale a riguardo degli altri, e ritirato in casa o in qualche convento religioso, attenderà in silenzio solamente a se stesso, impiegando tutta la giornata in orazioni, lezioni spirituali, visite al sacramento ed altri simili esercizi. Oh che forza prende l'anima in questi ritiri per più unirsi con Dio e per meglio camminar poi negli altri giorni! In tempo di tentazioni, specialmente se sono contro la purità, rinnovi il proposito di patir mille morti, prima che offendere Dio, e poi subito ricorra per aiuto a Gesù ed a Maria, invocando i loro ss. nomi, finché non si sedi l'empito della tentazione. Attenda a vestir modestamente, sempre di lungo, e non mai di seta. Fugga i conviti, i balli e le conversazioni de' secolari, precisamente dove son donne. Regole di spirito per un sacerdote alla perfezione Un sacerdote che attende alla perfezione e desidera farsi santo, prima di tutto dee attendere ad evitare più che la morte qualunque minimo peccato veniale deliberato. Secondo la fragilità umana niun uomo può al presente, né ha potuto mai dopo il peccato di Adamo (eccettuandone solamente Gesù Cristo e la sua ss. Madre) essere esente da tutte le colpe veniali indeliberate; ma col divino aiuto ben può ciascuno sfuggire qualunque colpa deliberata, cioè commessa con piena avvertenza e consenso; e così han fatto i santi. Pertanto chi attende alla perfezione bisogna che stia con animo risoluto di farsi prima tagliare a pezzi, che ad occhi aperti dire una bugia, o fare altro peccato veniale per minimo che sia. Così dee star risoluto; ma accadendo per disgrazia che commetta qualche colpa o deliberata o indeliberata, non dee disturbarsi e restarne inquieto. L'inquietudine non viene mai da Dio; è fumo che sempre sorge dal luogo dell'inquietudine, cioè che sorge dall'inferno: poiché, come saggiamente dicea s. Luigi Gonzaga, nell'acqua torbida sempre trova che pescare il demonio. Quando taluno ha commesso un difetto (per esempio) si disturba, e poi si disturba d'essersi disturbato; in questo stato d'inquietudine non solo non è atto a far cosa alcuna di bene, ma facilmente commetterà più altre colpe d'impazienze, o d'altra specie. Pertanto dopo il difetto commesso bisogna che la persona si umilii e subito ricorra a Dio, facendo un atto di amore o di pentimento, e proponendo l'emenda, cerchi aiuto con confidenza, dicendo: Signore, questo so far io; e se mi levate le mani da sopra farò peggio di questo. Io v'amo, mi pento del disgusto che v'ho dato, non voglio darvelo più; datemi poi l'aiuto, da voi lo spero. Fatto ciò, si metta in pace, come se non avesse commessa niuna colpa; e se torna a cadere nello stesso giorno, ritorni a far così; e se cade cento volte, sempre così faccia; sempre si umilii e si rialzi, né resti mai caduta. Ed avvertasi che 'l disturbarsi dopo il difetto commesso non è effetto d'umiltà, ma di superbia, sdegnandosi la persona per quel difetto, non tanto per lo disgusto dato a Dio, quanto per lo rossore che sente di comparirgli avanti così macchiata. Non mai dunque si disturbi per li difetti commessi, ma si umilii come capace di commettere quelli ed altri; e poi facendo un atto d'amore verso Dio, subito si metta in pace; e così si servirà del difetto, non per allontanarsi, ma per più stringersi con Dio. E così s'intende quel che dice l'apostolo: Omnia cooperantur in bonum colla Glossa che aggiunge, etiam peccata. Desideri sempre di crescere nel divino amore. Il non voler andare avanti nella perfezione (che tutta consiste nell'amare Dio) è voler andare indietro: Non progredi reverti est, dice s. Agostino. Chi cammina contro la corrente del fiume, e non procura di spingersi a verso di quella, la stessa corrente lo porterà indietro. Ciò avviene a noi che abbiamo da camminare contro la concupiscenza de' sensi. I santi desideri son quelli che ci alleggeriscono la fatica e ci portano avanti. Ma questi desideri bisogna che sieno risoluti ed efficaci, cioè che si pongano in esecuzione per quanto si può, e non siano come quelli di taluno che va dicendo per esempio: Oh! se non avessi fratelli o nipoti, me n'anderei in una religione; se avessi sanità, farei le tali penitenze; e frattanto non dà mai un passo avanti nella via di Dio, sempre commette gli stessi difetti, sempre conserva gli stessi attacchi e rancori, e sempre va di male in peggio. Bisogna dunque desiderare di avanzarsi nel divino amore, ma con risoluzione di far tutto dalla parte sua per giungervi; diffidando nonperò totalmente delle proprie forze, e confidando solamente in Dio; poiché chi in sé confida resta abbandonato dal divino aiuto. Per avanzarsi nella perfezione sia inoltre molto divoto della passione di Gesù Cristo e del ss. sacramento. Chi pensa a questi due gran misteri d'amore, d'un Dio che per farsi amare dà la vita e si fa cibo d'un verme sua creatura, non è possibile che non viva innamorato di Gesù Cristo, Caritas Christi urget nos, dice san Paolo. Chi pensa all'amore di Gesù Cristo si sente quasi forzato ad amarlo. San Bonaventura chiamò le piaghe di Gesù Cristo Vulnera vulnerantia et corda gelata inflammantia; piaghe che impiagano i cuori e infiammano di amor divino l'anime più gelate. Per tanto non lasci ordinariamente di fare ogni giorno una mezz'ora di orazione sulla passione del Signore. E spesso poi tra 'l giorno faccia atti d'amore verso Gesù Cristo, cominciando dallo svegliarsi, e procurando di addormentarsi con un atto d'amore. Dicea s. Teresa che gli atti d'amore sono le legna che mantengono acceso nel cuore il beato fuoco del divino amore. Specialmente sono atti d'amore molto cari a Dio le offerte di se stesso, offerendosi a fare ed a patire quanto a Dio piacerà. S. Teresa facea queste offerte almeno per 50 volte al giorno. Inoltre procuri in ogni azione di rettificar l'intenzione, facendo quanto opera solo e tutto per Dio. La retta intenzione chiamasi da' maestri di spirito l'alchimia spirituale, che ogni azione la fa diventare oro per lo spirito, anche i sollievi corporali, come sono il riposare, il cibarsi e 'l ricrearsi. Ma tanto più è necessario poi che gli esercizi spirituali si facciano solo per dar gusto a Dio, e non già per fine d'interesse o di propria stima o compiacenza, altrimenti tutto sarà perduto, ed in vece di premi ne riporteremo castighi. Perciò affine di far sicuramente per Dio quanto facciamo, è necessario il far tutto colla dipendenza dal nostro direttore. Sia amante della solitudine e del silenzio. Chi troppo tratta e parla cogli uomini, ancorché usi cautela, difficilmente ne uscirà senza colpa: In multiloquio non deerit peccatum. Che perciò disse Isaia: In silentio et spe erit fortitudo vestra. La nostra fortezza contro le tentazioni sta nel confidare in Dio e nel distaccarci dalla conversazione colle creature. Inoltre chi parla assai cogli uomini poco parlerà e tratterà con Dio. Egli nella solitudine parla e conversa alla famigliare colle anime. O solitudo, esclamava s. Girolamo, in qua Deus cum suis familiariter loquitur et conversatur! E prima Dio stesso fe' intenderci, che nella solitudine egli parla a' nostri cuori: Ducam eam in solitudinem et loquar ad cor eius. Quindi è che l'anime innamorate di Dio van sempre cercando solitudini. I santi sono andati ad intanarsi nelle selve e nelle caverne più orride della terra, affine di non esser disturbati dallo strepito del secolo e di trattare ivi da solo a solo con Dio. Dicea s. Bernardo: Silentium et a strepitu quies cogit coelestia meditari; il silenzio e la solitudine forzano, per così dire, l'anima a pensare solamente a Dio. La virtù nondimeno del silenzio non consiste nel sempre tacere ma nel tacere quando si dee. Il sacerdote santo dee tacere, sempre che dee tacere, ma dee parlare poi quando dee parlare; ma dee parlare solo di Dio o di cose che s'appartengono alla sua gloria e al bene dell'anime. Quante volte un discorso di Dio fatto alla famigliare in una conversazione o con un amico, gioverà più che molte prediche! Procuri dunque in tutti i discorsi, anche indifferenti, che occorrono, sempre di concludere poi con qualche massima di verità eterna, o di amore verso Dio. Chi ama una persona vorrebbe sempre di colei parlare e sentirne parlare: chi ama Dio non parla e non vuol sentir parlare che di Dio. L'amore a Dio sovra tutto consiste nell'unirsi alla sua divina volontà, specialmente in quelle cose che sono più contrarie al nostro amor proprio, come sono le infermità, la povertà, gli obbrobri, le persecuzioni, le aridità di spirito. Stiamo sicuri che quel che viene da Dio tutto è utile per noi, mentre tutto quello ch'egli fa lo fa per nostro bene, poiché non abbiamo chi ci ami più di Dio. Diciamo sempre in tutti gli avvenimenti, se vogliam farci santi: Fiat voluntas tua: Sit nomen domini benedictum: Domine, quid me vis facere? Sicut Domino placui, ita factum est: Ita Pater, quoniam sic placitum fuit ante te. E, per quanto ci avviene in questo mondo di prospero o d'avverso, procuriamo di conservare sempre la pace e quell'uniforme tranquillità praticata da' santi, dicendo sempre: In pace, in id ipsum dormiam et requiescam. Chi ama Dio, Sempre unito al suo Dio vive uniforme, cantò quel gran servo del Signore il cardinal Petrucci, giusta il detto dello Spirito santo: Non contristabit iustum quicquid ei acciderit. Sicché il sacerdote che ama Dio non dee stare mai afflitto; solo il peccato dee apportargli dolore; e pure questo dolore, come di sopra si è detto, dee essere un dolore tranquillo che apporti pace, non disturbo all'anima. Desideri spesso il paradiso, e perciò desideri la morte per andar presto in cielo ad amare Gesù Cristo con tutte le forze ed in eterno, senza pericolo di poterlo più perdere. Vada frattanto con Dio senza riserba, e non gli neghi alcuna cosa che intende essere di suo maggior gusto. Perciò stia continuamente attento a discacciare dal cuore ogni cosa che non è Dio, o non è per Dio. Procuri di avere una gran confidenza ed una tenera divozione verso la ss. Vergine. Tutti i santi han procurato sempre di nudrire una tenerezza di figli verso questa divina Madre. Non lasci ogni giorno di leggere qualche libro che tratti delle sue glorie, e della speranza grande che dobbiamo avere nella sua potente intercessione. Non lasci di fare il digiuno nel sabbato, come meglio può, e qualche astinenza almeno di cibo con qualche altra mortificazione in tutte le sue novene. Non lasci di visitarla una o più volte il giorno in qualche divota immagine. Parli quanto può agli altri della confidenza che dobbiamo avere nella protezione di Maria, e procuri nel sabbato di fare in qualche chiesa un sermoncino, per infervorare la gente alla di lei divozione; almeno in ogni predica la nomini con modo speciale, e ne raccomandi la divozione a tutti i suoi penitenti, e ad ognuno che può. Chi più ama Maria, amerà più Dio, poich'ella tutti gli amanti suoi li tira a Dio. Quia tota ardens fuit, dice s. Bonaventura, omnes se amantes incendit, et sibi assimilat. Procuri d'esser umile di cuore. Molti sono umili di parole, ma non di cuore, poiché dicono colla bocca di essere i peggiori peccatori dei mondo, di meritar mille inferni, ma poi vogliono essere preferiti, stimati e lodati; e quando non v'è altri che li lodi, si lodano da se stessi: ambiscono gli uffici di maggiore splendore, e non possono soffrire una parola di disprezzo. Gli umili di cuore non fanno così; non parlano mai de' loro talenti, nobiltà, ricchezze o d'altra cosa che ridondi in propria lode. Ami dunque gli uffici ed esercizi più umili e di meno lustro: abbracci i vilipendi che gli son fatti senza disturbarsi, anzi di quelli se ne compiaccia, nello spirito, vedendosi fatto simile a Gesù Cristo che fu saziato di obbrobri. Perciò quando riceve qualche incontro, e la superbia si risente, facciasi allora forza a non parlare, né fare alcuna azione, ancorché forse egli come superiore fosse tenuto a correggere l'insolenza di chi così lo maltratta; in quel tempo, sino a quando si sente coll'animo sturbato taccia, ed aspetti sino che si sente rasserenato; altrimenti in quel fumo che porta seco il disturbo non ci vedrà, crederà che quel che dice o fa sia giusto, ma tutto sarà difetto e disordine. Oltreché quando la correzione si fa con animo disturbato, il suddito non la riceve più come correzione dovuta, ma come sfogo di passione del superiore, e così poco o niente gioverà più la correzione. E per la stessa ragione il superiore, quando vede che 'l suddito sta disturbato, dee allora tralasciare di correggerlo, ed aspettare il tempo in cui sarà quegli serenato; altrimenti il suddito, offuscato dalla sua passione, non solo non riceverà la correzione, ma proromperà in maggiori escandescenze. Procuri quanto può di soccorrere tutti, specialmente di render bene a chi gli ha fatto male: almeno col raccomandarlo a Dio. Questo è il modo con cui si vendicano i santi. Attenda alla mortificazione interna ed esterna. Questa fu già significata da Gesù Cristo in quell'abneget semet ipsum, ch'è assolutamente necessario per giungere alla santità. La mortificazione esterna importa il vincersi coll'astenersi da ogni cosa, in cui non si trova altro guadagno che compiacere l'amor proprio; e così si astenga da tutte quelle azioni che non si fanno per altro che per compiacere la curiosità, o l'ambizione, o la propria volontà. Ami ancora le mortificazioni esterne, i digiuni, le astinenze, le discipline e cose simili. I santi han macerati i loro corpi quanto più potevano, cioè quanto loro permetteva l'ubbidienza: questa è la regola dei santi. Chi poi per la poca sanità non potesse far mortificazioni esterne, procuri di abbracciare i dolori e gl'incomodi delle sue infermità, procurando di soffrirli con pazienza e pace, astenendosi di manifestarli senza necessità, e di lagnarsi della poca assistenza de' domestici o de' medici. Preghi sempre e si raccomandi a Dio. Tutte le nostre buone risoluzioni e promesse vanno in fumo quando non preghiamo; perché non pregando saremo privi dell'aiuto di Dio per eseguirle. Sicut pullus hirundinis, sic clamabo. Bisogna che teniamo sempre la bocca aperta a pregare e a dire: Signore, aiutami, Signore, misericordia, Signore, abbi pietà di me. Così han fatto tutti i santi, e così si son fatti santi. Specialmente domandiamo sempre a Gesù Cristo il dono del suo santo amore. Dicea s. Francesco di Sales, che il dono di amar Gesù Cristo è quello che comprende tutti gli altri doni; perché chi ama Dio, procurerà di evitare ogni di lui disgusto, e di far quanto può per compiacerlo. Domandiamo ancora sempre la grazia di avere una gran confidenza nella passione di Gesù Cristo e nell'intercessione di Maria. Non lasciamo ancora di raccomandar sempre a Dio le anime sante del purgatorio ed i poveri peccatori, poiché tali preghiere son molto gradite a Dio. Massime di spirito per un sacerdote Si perda tutto e non si perda Dio. Si disgustino tutti e non si disgusti Dio. Solo il peccato si ha da temere e ci ha da affliggere. Prima morire che commettere un peccato, anche veniale, ad occhi aperti. Ogni cosa finisce. Il mondo è una scena che presto termina. Ogni momento vale un tesoro per l'eternità. Tutto è buono quel che piace a Dio. Eleggi quel che vorresti aver fatto in morte. Vivi come non vi fosse altro che tu e Dio. Solo Dio contenta. Non vi è altro bene che Dio, non vi è altro male che il peccato. Non far mai niente per propria soddisfazione. Chi più si mortifica in questa vita più godrà nell'altra. Agli amanti di Dio l'amaro è dolce e il dolce è amaro. Chi vuole quel che vuole Dio ha tutto quel che vuole. La volontà di Dio rende dolce ogni amarezza. Nell'infermità si scopre chi ha spirito. Chi non brama niente di questo mondo non ha bisogno di niente. Non procrastinare i buoni propositi, se non vuoi andare indietro. Il disturbarsi per i difetti commessi non è umiltà, ma superbia. Tanto siamo, quanto siamo davanti a Dio. Chi ama Dio, più vuole amare che sapere. Chi vuol farsi santo bisogna che scacci dal cuore ogni cosa che non è Dio. Non è tutto di Dio chi cerca qualche cosa che non è Dio. Il dolore, la povertà e il disprezzo furono i compagni di Gesù, questi siano anche i nostri. Il disturbo, sia per qualunque buon fine, non viene mai da Dio. L'umile si tiene per indegno d'ogni onore e per degno d'ogni disprezzo. Chi pensa all'inferno meritato patisce con pace ogni pena. Scordati di te e Dio penserà a te. Ama i disprezzi e troverai Dio. Chi si contenta del meno buono sta vicino al male. Dio poco stima chi cerca d'essere stimato. I santi parlano sempre di Dio; sempre male di loro e sempre bene degli altri. I curiosi stanno sempre dissipati. Guai a chi ama più la sanità che la santità. Il demonio va a caccia degli oziosi. D'un sacerdote vano il demonio si serve come d'una palla da gioco. Chi vuol pace bisogna che mortifichi tutte le passioni, senza eccezione. Diceva il b. Giuseppe da Calasanzio: Il servo di Dio poco parla, molto fatica, sopporta tutto. I santi studiano per essere, non già per comparir santi. Non giungerà mai a qualche buon grado di perfezione chi non ama molto l'orazione. Bisogna esser prima conca per raccogliere, e poi canale per diffondere. Ogni attaccamento impedisce d'esser tutto di Dio. Il sacerdote non deve altro rimirare che Gesù Cristo, e il gusto di Gesù Cristo. Nelle opere d'apparenza spesso si nasconde la superbia. L'offrirsi tutto a Dio è un grande apparecchio per la comunione. Camminando per l'abitato tieni gli occhi bassi; pensa che sei sacerdote, non pittore. |